La complessità del conflitto israelo-palestinese ha attirato in modo diretto il coinvolgimento di numerosi attori internazionali, ciascuno con i propri interessi ma tutti desiderosi di evitare un ulteriore allargamento della guerra. Gli Stati Uniti, storicamente alleati di Israele, nel 2025 hanno assunto un ruolo di primo piano sia nel supporto militare a Gerusalemme sia negli sforzi diplomatici per fermare le ostilità. Con l’insediamento della nuova amministrazione del presidente Donald Trump (gennaio 2025), Washington ha lanciato un’energica iniziativa di pace: il già citato piano in venti punti mirato a porre fine alla guerra di Gaza, disarmare Hamas e avviare la ricostruzione sotto un governo locale non ostile. Trump ha visitato Israele e l’Egitto all’inizio di ottobre 2025 per inaugurare la tregua, sottolineando l’impegno diretto della Casa Bianca nel dossier. La diplomazia statunitense ha inoltre coinvolto attivamente vari partner regionali chiave – tra cui il Qatar, l’Egitto, la Turchia, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi – in consultazioni serrate per costruire consenso intorno al piano. Questo approccio, insolito e personalistico, ha prodotto risultati importanti (il cessate il fuoco e la liberazione di ostaggi), ma resta fragile: molto dipende dalla continuità dell’attenzione di Washington. Gli osservatori, infatti, notano che il presidente Trump tende ad agire in modo imprevedibile e focalizzato sul risultato personale; qualora distogliesse lo sguardo ritenendo risolto il problema, il processo di pace potrebbe arenarsi e lasciare spazio a una recrudescenza della violenza. Accanto agli USA i mediatori regionali svolgono un ruolo imprescindibile. L’Egitto, Paese arabo confinante con Gaza, da anni si pone come interlocutore di fiducia sia per Israele sia per le fazioni palestinesi. Il Cairo ha ospitato numerosi colloqui indiretti tra israeliani e Hamas e anche stavolta ha fornito la piattaforma diplomatica: a Sharm el-Sheikh, in Egitto, si sono riuniti i rappresentanti di oltre 20 Paesi – dagli Stati Uniti a varie nazioni europee e mediorientali – per approvare congiuntamente la cornice del piano di pace di Trump e sostenere la tregua. L’Egitto inoltre controlla l’unico varco di frontiera di Gaza non in mano a Israele (Rafah) e si è fatto garante che l’apertura parziale di questo passaggio per gli aiuti umanitari avvenisse in sicurezza. Qatar dal canto suo ha agito da mediatore fondamentale verso Hamas: l’emirato del Golfo ospita a Doha diversi leader politici di Hamas e, grazie anche alla sua disponibilità economica, da tempo finanzia progetti umanitari a Gaza, guadagnandosi credibilità presso i palestinesi. Doha ha usato questa leva per facilitare le trattative sugli ostaggi e sui cessate il fuoco. Già a gennaio 2025 Qatar ed Egitto, insieme agli Stati Uniti, avevano mediato una tregua temporanea tra Israele e Hamas (poi naufragata). In occasione dell’accordo di ottobre 2025 la convergenza di interessi tra Qatar e altre monarchie del Golfo è stata determinante: il cessate il fuoco è dovuto tanto alle pressioni statunitensi quanto al coordinamento dietro le quinte tra i Paesi arabi del Golfo, che hanno offerto incentivi e garanzie diplomatiche sia a Hamas sia a Israele per indurli a fermare le armi. Da segnalare che non sono mancati momenti di frizione – come quando a settembre 2025 Israele ha effettuato un controverso raid contro obiettivi di Hamas sul suolo del Qatar, suscitando l’ira di Doha – ma l’amministrazione USA è intervenuta per evitare strappi irreparabili e mantenere unito il fronte dei negoziati. Un fattore esterno ma influente è rappresentato dall’Iran, storico sostenitore dei movimenti armati antisraeliani. Teheran finanzia e addestra Hamas e la Jihad Islamica a Gaza, oltre a esercitare un’influenza diretta su Hezbollah in Libano. Fin dall’attacco di Hamas del 2023, Israele ha accusato l’Iran di aver quantomeno ispirato l’offensiva e temuto un allargamento del conflitto su più fronti. In effetti, nelle settimane successive all’ottobre 2023 si sono verificati scontri anche al confine nord di Israele, con Hezbollah che ha lanciato razzi e colpi di mortaio dal Libano e ha ingaggiato schermaglie con l’esercito israeliano rischiando di aprire un secondo fronte di guerra. Allo stesso tempo gruppi militanti sciiti sponsorizzati dall’Iran, come gli Houthi in Yemen e milizie attive in Siria e Iraq, hanno compiuto attacchi missilistici e con droni contro obiettivi israeliani o americani nella regione. Questo crescendo di tensioni ha portato il conflitto sull’orlo di un’ulteriore escalation regionale. Il punto critico è stato raggiunto nel giugno 2025 quando Israele – preoccupato dai segnali di un possibile intervento diretto iraniano e dal programma nucleare di Teheran – ha lanciato attacchi aerei preventivi contro siti nucleari e basi militari iraniani. Ne è scaturita una breve ma pericolosa guerra di dodici giorni, durante la quale l’Iran e i suoi alleati hanno minacciato ritorsioni e gli Stati Uniti sono intervenuti a fianco di Israele colpendo anche le installazioni nucleari iraniane più protette. Questo confronto diretto, sebbene circoscritto, ha dimostrato quanto il dossier israelo-palestinese sia intrecciato con la sfida più ampia tra Iran e blocco USA-Israele: qualsiasi soluzione a Gaza dovrà tenere conto dell’influenza iraniana, altrimenti nuove fiammate di violenza potrebbero provenire dai proxy di Teheran nella regione. L’Europa si muove in questo scenario come attore soprattutto diplomatico e umanitario. I Paesi europei, e l’Unione Europea nel suo insieme, hanno ripetutamente chiesto la cessazione delle ostilità a Gaza o quantomeno pause umanitarie per consentire soccorsi alla popolazione civile. Pur condannando l’attacco di Hamas del 2023 in Europa è cresciuta col passare dei mesi la preoccupazione per l’elevato numero di vittime civili causate dalle operazioni israeliane e per la distruzione umanitaria in atto – si è parlato anche del rischio di pulizia etnica o genocidio nei dibattiti pubblici europei, spingendo molte piazze a mobilitarsi. L’UE ha cercato di contribuire concretamente: si è dichiarata pronta a dispiegare una missione umanitaria al valico di Rafah (tra Egitto e Gaza) per supervisionare e facilitare l’ingresso degli aiuti non appena le condizioni di sicurezza lo renderanno possibile. Inoltre l’Europa guarda al medio-lungo termine e al contesto politico: consapevoli che senza una prospettiva politica la tregua difficilmente reggerà alcuni Stati europei hanno preso iniziative diplomatiche simboliche. In settembre 2025 la Francia ha annunciato il riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina, seguita a ruota da altri governi come Belgio, Lussemburgo, Malta, Andorra e persino il Principato di Monaco. Si tratta di un gesto perlopiù simbolico (non comporta cambiamenti immediati sul terreno), ma significativo come segnale di sostegno alla soluzione a due Stati e di pressione affinché i palestinesi abbiano diritto a uno Stato indipendente. Gli Stati Uniti hanno espresso irritazione per questa mossa – il Segretario di Stato americano Marco Rubio l’ha definita imprudente – ma la Casa Bianca di Trump ha scelto di non inasprire lo scontro con gli alleati europei su questo tema. In effetti il riconoscimento palestinese da parte europea non ha incrinato la cooperazione transatlantica; anzi, ha dimostrato una nuova assertività europea sul dossier mediorientale, fatto che secondo alcuni osservatori ha rafforzato la percezione, soprattutto tra i Paesi arabi, di un riequilibrio delle alleanze in Medio Oriente non più totalmente sbilanciato a favore di Israele. In sintesi, l’Europa tenta di ritagliarsi un ruolo di costruttrice di pace – fornendo aiuti, supporto diplomatico e sostegno alla governance palestinese – pur non avendo il peso militare né l’influenza diretta che Stati Uniti e attori regionali esercitano sui protagonisti del conflitto. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA
TESTO SC.
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