Guardando al prossimo futuro il conflitto israelo-palestinese potrebbe evolvere secondo diversi scenari. Di seguito ne analizziamo quattro – continuazione della guerra, tregua prolungata, accordo di pace negoziato, conflitto congelato – valutando quali siano le prospettive più plausibili e perché.
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Continuazione del
conflitto: uno scenario è la ripresa su vasta scala delle ostilità. Ciò
potrebbe avvenire se saltasse l’attuale cessate il fuoco, ad esempio per un
grave incidente o per il fallimento dei colloqui in corso. In tal caso Israele
tornerebbe a condurre operazioni militari intensive a Gaza (o addirittura su
altri fronti, come il Libano, qualora Hezbollah intervenisse), e Hamas
riprenderebbe i lanci di razzi e gli attacchi riportando la regione nello stato
di guerra aperta. Questo esito sarebbe catastrofico per i civili, dati i
livelli di distruzione già raggiunti. Purtroppo è una possibilità da non
escludere: se il processo diplomatico dovesse arenarsi, molti analisti
avvertono che le due parti potrebbero scivolare di nuovo nel ciclo di violenza
e rappresaglie che ha già causato tanto sangue. Basterebbe un attentato o un
errore di calcolo a far crollare la tregua, poiché la sfiducia reciproca resta
altissima e gli elementi più radicali (da entrambe le parti) potrebbero tentare
di sabotare un accordo percepito come sfavorevole.
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Cessate il fuoco
prolungato: in alternativa, è possibile che l’attuale tregua si mantenga nel
tempo, senza però sfociare subito in un accordo di pace formale. In questo
scenario le armi resterebbero in gran parte silenti e si eviterebbero nuove
campagne militari, ma la pace rimarrebbe incompiuta. Israele e Hamas – pur
diffidenti – continuerebbero a rispettare un cessate il fuoco tacito o esplicito
per mesi (se non anni), magari rinnovandolo periodicamente con la mediazione
internazionale. Ci sarebbero indubbi benefici: la popolazione di Gaza avrebbe
tregua dai bombardamenti e più accesso agli aiuti, mentre in Israele cesserebbe
l’incubo dei razzi e dei tunnel incursori. Tuttavia, si tratterebbe di una
stabilità precaria e punteggiata da incidenti isolati: ad esempio, lungo la
nuova linea di demarcazione istituita a Gaza, l’esercito israeliano ha già
dovuto fronteggiare infiltrazioni o proteste, e in alcuni casi ha aperto il
fuoco uccidendo civili palestinesi che si avvicinavano troppo alle zone
interdette. Un cessate il fuoco prolungato somiglierebbe dunque a una tregua
armata, in cui ciascun lato rimane fortemente armato e pronto a reagire al minimo
segnale di minaccia. Questa situazione permetterebbe di guadagnare tempo: tempo
per la ricostruzione (parziale) di Gaza, per alleviare la crisi umanitaria e
per intavolare negoziati più strutturati. Ma senza un quadro politico
risolutivo il conflitto potrebbe riesplodere in qualsiasi momento. Molti
ritengono comunque che, nell’immediato, questa sia l’evoluzione più probabile:
entrambe le parti sono provate da due anni di guerra e la pressione
internazionale per mantenere la calma è forte, quindi una prosecuzione della
tregua – per quanto instabile – appare uno scenario realistico a breve termine.
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Pace negoziata: lo
scenario idealmente auspicabile sarebbe quello di una pace concordata e
duratura. In questo caso l’attuale cessate il fuoco evolverebbe gradualmente in
un accordo di più ampio respiro che metterebbe fine al conflitto armato. Gli
elementi chiave di una pace negoziata includerebbero: il disarmo o la
smilitarizzazione di Hamas a Gaza (con contestuale rinuncia israeliana alle
operazioni offensive), l’affidamento dell’amministrazione di Gaza a un’autorità
palestinese legittimata (si discute di un possibile ritorno dell’Autorità
Nazionale Palestinese, magari con il supporto di Stati arabi, oppure di un
governo tecnico locale supervisionato dall’esterno), e garanzie di sicurezza
sia per Israele sia per la popolazione di Gaza. In ambito ONU, ad esempio, si
sta valutando una proposta in base alla quale una forza internazionale guidata
dagli Stati Uniti e da altri Paesi possa garantire la sicurezza a Gaza per un
periodo transitorio con l’idea di restituire poi il controllo della Striscia a
un’Autorità Palestinese riformata entro il 2027. Un accordo di pace di questo
genere dovrebbe inoltre affrontare le questioni di fondo: il futuro politico di
Gaza e Cisgiordania (verso un possibile Stato palestinese indipendente), il
destino dei coloni israeliani nei territori occupati, lo status di Gerusalemme
e il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. In sostanza riaprirebbe il
dossier storico israelo-palestinese per trovare una soluzione complessiva a due
stati. Si tratta di un percorso irto di ostacoli. L’attuale piano in
discussione contiene condizioni molto difficili da attuare per entrambe le
parti – dismissione dell’arsenale di Hamas, profonda riorganizzazione politica
a Gaza, concessioni territoriali da parte di Israele – e molti punti
ripropongono nodi già rivelatisi in passato quasi insolubili. Non sorprende
dunque che gli esperti mantengano cautela. Resta una domanda aperta: se questo
porterà davvero alla fine della guerra nonostante i punti più delicati siano
ancora da definire. Una pace negoziata in definitiva sarebbe la soluzione più
stabile e vantaggiosa (permetterebbe di concentrarsi sullo sviluppo economico e
la convivenza pacifica), ma è anche la più difficile da raggiungere in tempi
brevi. Richiederebbe un livello di fiducia reciproca e di cooperazione – o
quantomeno la forte imposizione di garanti esterni – che al momento né Israele
né la leadership di Hamas sembrano avere. È plausibile che questo scenario
possa iniziare a concretizzarsi solo attraverso passi incrementali e sotto
costante pressione internazionale, se la tregua reggerà tanto a lungo da far
maturare le condizioni politiche necessarie.
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Conflitto congelato:
un ultimo possibile esito è quello di una situazione di stallo prolungato,
spesso definita come conflitto congelato. In tale scenario non si
raggiunge un accordo di pace formale, ma nemmeno si ritorna alle ostilità
aperte: lo status quo di fatto congelerebbe la contrapposizione. Gaza
rimarrebbe divisa e fortemente militarizzata: Israele potrebbe mantenere una
zona cuscinetto di sicurezza lungo il perimetro e un controllo rigoroso di
entrate e uscite, mentre Hamas (o ciò che ne rimane in termini di struttura
armata) continuerebbe a governare parte del territorio, pur indebolito e
contenuto. La Cisgiordania resterebbe sotto occupazione israeliana con la
presenza di colonie e periodiche tensioni nelle città autonome palestinesi. In
superficie ci sarebbe calma relativa – niente bombardamenti quotidiani, niente
razzi – ma sotto coverebbe l’assenza di una risoluzione politica. Si
tratterebbe, insomma, di una pace solo apparente: incidenti a bassa intensità
continuerebbero a verificarsi, alimentando rancori e sofferenze senza però
sfociare (finché dura il congelamento) in guerra totale. L’attuale tregua già
presenta alcuni tratti di questo scenario: permane ad esempio una linea di
separazione a Gaza oltre la quale gli sfollati palestinesi non possono tornare,
con continue schermaglie locali e accuse reciproche di violazioni che però
finora non hanno fatto deragliare completamente il cessate il fuoco. Un
conflitto congelato potrebbe durare mesi o anni, cristallizzando una situazione
di né pace né guerra. È uno scenario che ricorda altre aree del mondo
dove i conflitti rimangono irrisolti ma sopiti (come, ad esempio, la situazione
tra Israele e Hezbollah in Libano prima delle recenti escalation, o in altre
regioni contese). In termini di probabilità, molti analisti lo considerano uno
sbocco possibile qualora falliscano sia la soluzione negoziale sia, per ragioni
di pressione esterna, l’opzione di un ritorno immediato alla guerra aperta.
Sarebbe in fondo una prosecuzione a tempo indeterminato dell’attuale fragile
tregua senza affrontarne le cause radicate. Un tale congelamento garantirebbe
nell’immediato l’assenza di grandi offensive militari, ma non offrirebbe alcuna
garanzia di stabilità a lungo termine: anzi, rischierebbe di creare uno
scenario simile a una bomba a orologeria, dove il conflitto può
riesplodere violentemente al mutare del contesto politico o al primo incidente
grave.
In conclusione, tra questi scenari quello più realistico nel breve
periodo appare una via di mezzo tra il cessate il fuoco prolungato e il
conflitto congelato. Dopo due anni di combattimenti devastanti, né Israele né
Hamas (né tantomeno la popolazione civile stremata) hanno interesse immediato a
ripiombare nella guerra totale, soprattutto sotto lo sguardo attento di Stati
Uniti e attori regionali. Una tregua duratura ma precaria potrebbe quindi
continuare, con tensioni gestite giorno per giorno. Allo stesso tempo, la
strada verso una pace negoziata e completa è lastricata di ostacoli: serviranno
probabilmente tempo, pressioni coordinate e concessioni dolorose perché si
realizzi un accordo stabile – obiettivo che, a novembre 2025, rimane ancora
lontano. Il rischio di una ripresa del conflitto rimane comunque sullo sfondo:
affinché non si materializzi, sarà fondamentale mantenere vivo lo slancio
diplomatico internazionale (dagli USA ai mediatori arabi ed europei) e offrire
alle parti in conflitto prospettive credibili di sicurezza e dignità – unica
alternativa concreta al ripetersi ciclico della violenza. In sintesi, il
conflitto Israelo-Palestinese a fine 2025 è in bilico: sospeso tra la fine di
una guerra sanguinosa e l’incertezza di un futuro ancora da scrivere, nella
speranza che dalle macerie di Gaza e dalle tensioni di Gerusalemme possa
finalmente emergere un percorso verso una pace giusta e duratura. Roberto
Rapaccini