Dopo
quasi due anni di guerra, un conflitto estenuante e un bilancio umanitario
devastante, il 9 ottobre 2025 Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo di
cessate il fuoco che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe porre fine alle
ostilità nella Striscia di Gaza. L’intesa, mediata dagli Stati Uniti con il
sostegno di Egitto, Qatar e Turchia, rappresenta la prima vera tregua organica
da quando il conflitto è esploso nel 2023, segnando una tappa potenzialmente
decisiva ma anche estremamente fragile nel percorso verso la pace. L’accordo è
strutturato in fasi operative precise, scandite da tempi brevi e verificabili.
La prima prevede un cessate il fuoco immediato e il ritiro graduale delle
truppe israeliane su una linea predefinita all’interno della Striscia – la
cosiddetta “Linea Gialla” – entro 24 ore dall’approvazione formale dell’intesa.
In parallelo, entro 72 ore, dovranno iniziare le operazioni di scambio tra gli ostaggi
israeliani ancora in vita (circa una ventina secondo le stime ufficiali) e un
ampio gruppo di prigionieri palestinesi, il cui numero complessivo si
aggirerebbe intorno ai duemila. Il documento prevede inoltre un massiccio piano
umanitario, coordinato dalle Nazioni Unite, per garantire l’ingresso immediato
di aiuti, cibo e medicinali destinati a circa due milioni di persone. Il piano
d’emergenza prevede anche la ricostruzione di ospedali, scuole e reti idriche
essenziali, distrutte dai bombardamenti, e un sistema di monitoraggio con la
presenza di personale statunitense ed europeo per verificare il rispetto del
cessate il fuoco. Sul piano politico, l’accordo segna una vittoria diplomatica
per Washington, che ottiene un successo visibile dopo mesi di negoziati falliti
e tensioni con il governo israeliano. Tuttavia, all’interno dello stesso
Israele l’intesa ha generato forti tensioni politiche: l’ala più radicale della
coalizione di governo, guidata dai ministri di estrema destra, accusa Netanyahu
di aver ceduto a pressioni internazionali e di aver “premiato il terrorismo”
con la liberazione dei prigionieri palestinesi. Sul fronte palestinese, Hamas
ha dichiarato di aver ottenuto “garanzie dirette dagli Stati Uniti” sulla fine
delle operazioni militari israeliane e sull’avvio di un percorso politico che
dovrà portare, nelle fasi successive, a una nuova forma di governance per Gaza.
È proprio questo il nodo più delicato: chi controllerà la Striscia dopo la fine
del conflitto? Israele rifiuta categoricamente un ritorno di Hamas al potere,
mentre l’Autorità Nazionale Palestinese, indebolita e divisa, non appare in
grado di assumere il pieno controllo amministrativo. Gli Stati Uniti e l’Unione
Europea propongono una amministrazione transitoria sotto supervisione
internazionale, ma si tratta di un’ipotesi ancora lontana da una definizione
concreta. Sul terreno, intanto, la tregua resta precaria. I bombardamenti si
sono ridotti ma non cessati del tutto, e l’ingresso dei primi convogli di aiuti
procede a rilento per questioni logistiche e di sicurezza. Il numero delle
vittime, in due anni di guerra, supera ormai le 65.000 persone, con una media
stimata di oltre 90 morti al giorno: una tragedia che ha trasformato Gaza in
una delle aree più martoriate al mondo. Gli osservatori sottolineano che la
tregua non è ancora una pace, ma un cessate il fuoco condizionato, vincolato a
un delicato equilibrio di garanzie reciproche. L’ONU ha invitato le parti a
“non sprecare questa finestra di speranza”, ma gli analisti avvertono che ogni
errore, ogni provocazione o incidente, potrebbe far saltare l’intero impianto
negoziale. L’accordo, inoltre, non affronta ancora i nodi più strutturali del
conflitto: lo status finale di Gaza, la questione dei rifugiati, la sicurezza
di Israele e, soprattutto, la prospettiva – sempre più lontana – di una soluzione
a due Stati, che resta la cornice teorica ma oggi quasi simbolica del processo
di pace. In sintesi, l’accordo del 9 ottobre rappresenta un passo necessario,
forse inevitabile, dopo mesi di sofferenze e isolamento internazionale di
entrambe le parti. È un gesto di realismo politico più che un atto di
riconciliazione, una tregua nata dall’esaurimento delle risorse e dalla
pressione dei mediatori, piuttosto che da una volontà autentica di convivenza. Ma
anche una tregua “fredda” può generare conseguenze positive se consolida un
meccanismo di fiducia e di controllo multilaterale. Nei prossimi giorni, il
successo o il fallimento di questo accordo dipenderanno dalla capacità di
tradurre le parole in atti concreti, dall’apertura dei valichi e dal ritorno,
almeno parziale, alla normalità per la popolazione civile. La pace, come spesso
accade in Medio Oriente, rimane più un orizzonte che un traguardo. Tuttavia,
dopo due anni di guerra e un’intera generazione di bambini cresciuti sotto le
bombe, anche un orizzonte può diventare un inizio.
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
venerdì 10 ottobre 2025
L’ACCORDO DI GAZA DEL 9 OTTOBRE 2025: TREGUA FRAGILE O SVOLTA POLITICA (2025)
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