RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

martedì 14 ottobre 2025

CESSATE IL FUOCO O TRANSIZIONE POLITICA - L’UNICA CERTEZZA IL FUTURO INCERTO DI GAZA


L’avvio della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza — inserito nel piano in 20 punti promosso da Donald Trump — apre una finestra, stretta ma reale, su un passaggio d’epoca: dal ciclo della resistenza armata a un ciclo di ri-politicizzazione della causa palestinese. Il piano, annunciato a fine settembre, ha avuto un’accelerazione l’8–9 ottobre con la definizione della prima fase: cessate il fuoco, rilascio di ostaggi e prigionieri, arretramento militare israeliano su linee concordate. La demilitarizzazione della Striscia rientra nella fase successiva del pacchetto, e su questo punto permangono divergenze: per Israele la guerra termina solo dopo il disarmo, mentre per Hamas il punto di svolta è legato alla liberazione degli ostaggi e al ritiro. È qui che si gioca il ‘dopo’. Chi rappresenterà i palestinesi nel nuovo quadro? L’architettura proposta separa sicurezza e ‘governance’, ma traccia anche un perimetro: nessun ruolo per Hamas e per le formazioni armate nella gestione istituzionale di Gaza. È una clausola che può favorire un cessate il fuoco stabile, ma rischia di sganciare una parte consistente della base sociale dalla rappresentanza formale. Se questa esclusione non sarà compensata da canali di partecipazione politica (municipi, sindacati, associazioni di quartiere, elezioni locali, consultazioni interne all’OLP), il conflitto potrebbe ricadere nella clandestinità, spostandosi dalle istituzioni alla strada. L’OLP, attraverso l’Autorità Palestinese, ha accolto con prudente favore il piano in 20 punti promosso da Trump, considerandolo un possibile passo verso la fine della guerra e la riunificazione istituzionale tra Gaza e Cisgiordania. Pur sostenendo il cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e la necessità di un governo palestinese unitario, la leadership dell’OLP chiede garanzie sulla sovranità palestinese effettiva e sul superamento dell’assedio. Il suo obiettivo è recuperare un ruolo politico e amministrativo a Gaza, oggi precluso a Hamas, ma senza apparire come esecutore di decisioni imposte dall’esterno. In questa fase l’OLP si colloca dunque come interlocutore moderato e istituzionale, favorevole a una transizione ordinata ma attento a evitare di legittimare una ‘pace amministrata’ che non risolva le cause profonde del conflitto. La ‘resistenza senza armi’ potrà avere tre possibili direttrici: il ‘dopo’ potrebbe correre su tre binari coordinati — quelli della politica, della giustizia internazionale e della mobilitazione civile.

• Sul piano politico-istituzionale potranno essere necessarie: la riforma o la riattivazione dell’OLP con l’inclusione o almeno la consultazione strutturata delle correnti oggi escluse; elezioni locali a Gaza; una ricomposizione minima con la leadership in Cisgiordania per evitare un ‘doppio Stato’ palestinese di fatto.

• Sul piano civile-nonviolento: si evidenzia l’opportunità di creare reti di comitati, campagne BDS (Boycott, Divestment and Sanctions - strumenti non-violenti di pressione politica e civile volti a spostare il conflitto dal piano militare a quello economico, giuridico e simbolico), azioni di advocacy legale (azioni di difesa e promozione dei diritti attraverso gli strumenti giuridici), documentazione sistematica delle violazioni, pressione su forniture militari e riconoscimenti diplomatici; è questo il terreno dove la legittimità internazionale pesa di più.

• Sul piano giuridico-diplomatico: sarà importante l’uso coordinato delle sedi ICC (Corte Penale Internazionale) e ICJ (Corte Internazionale di Giustizia), insieme agli strumenti ONU sui diritti umani, puntando su responsabilità individuali e misure di protezione per i civili; parallelamente, si articolerà il lavoro di monitoraggio con i mediatori regionali (Qatar, Egitto, Turchia) che hanno costruito l’accordo.

È essenziale evitare vuoti di potere. Ogni demilitarizzazione efficace richiede un pacchetto DDR (disarmo, smobilitazione, reintegrazione). Senza un meccanismo credibile — incentivi economici, amnistie condizionate, garanzie personali, integrazione selettiva di quadri non implicati in crimini gravi nella sicurezza civile — il rischio è la frammentazione: micro-milizie, clan armati e criminalità organizzata occuperanno lo spazio lasciato dalle brigate. In parallelo, Israele dovrà rispettare ritiri e corridoi per aiuti e mobilità commerciale, altrimenti ogni ‘pace’ resterà di carta e verrà delegittimata sul campo nel giro di settimane. È opportuna un’unica cornice di legittimazione per Gaza e Cisgiordania. Il cessate il fuoco a Gaza non cancella la pressione coloniale in Cisgiordania (insediamenti, incursioni, arresti). Se il ‘dopo’ si limita alla Striscia, la narrativa della resistenza resterà attiva a Nablus, Jenin e Hebron. Servono misure simmetriche: stop alle espansioni, protezione delle comunità, riforma coordinata delle forze di polizia palestinesi, roadmap su Gerusalemme Est. Senza una cornice unica, ogni transizione istituzionale a Gaza sarà percepita come amministrazione dell’assedio, non come percorso di autodeterminazione. La ricostruzione deve integrarsi con la politica pubblica. Non è solo ingegneria: è politica pura. Cantieri, appalti, forniture di cemento, energia e acqua disegnano nuove reti di potere. Trasparenza, anticorruzione, quote per imprese locali, corridoi per export e lavoro transfrontaliero sono essenziali per spostare il consenso dalla logica della milizia alla logica dello Stato sociale (scuole, ospedali, case). In assenza di ciò, la povertà cronica alimenta la resilienza armata e svuota di senso il tavolo politico. Restano alcune incertezze decisive. Il pacchetto Trump tiene insieme ostaggi, ritiro a linee concordate e fasi successive sul disarmo, con la mediazione di Qatar, Egitto e Turchia. Due incognite restano centrali:

• la politica interna israeliana, dove coalizioni e leadership possono giocare al rialzo;
• la verificabilità degli impegni (monitoraggio terzo, sanzioni in caso di violazioni, garanzie sulla fine dell’assedio).

Senza meccanismi vincolanti, i precedenti dimostrano che i cessate il fuoco possono logorarsi e saltare. Si deve uscire dalla resistenza senza tradirla. Un impegno formale, sottoscritto da tutte le famiglie politiche palestinesi — incluse quelle oggi proscritte a livello di governo ma non criminalmente implicate — dovrebbe prevedere principi condivisi (diritti, fine dell’occupazione, elezioni, separazione tra milizia e Stato), forme consultive assembleari con potere di iniziativa su bilancio e ricostruzione, giustizia selettiva con priorità ai crimini contro civili e percorsi di giustizia riparativa per reati minori collegati al conflitto, nonché tutele credibili per chi depone le armi. La rappresentanza dell’OLP va aggiornata, aprendo canali di competizione politica regolata che sostituiscano la competizione militare. Ogni fase deve avere una verifica esterna. Una missione mista arabo-internazionale dovrebbe monitorare ritiro, scambi di prigionieri, corridoi umanitari e la fine effettiva del blocco (misura da definire in sede negoziale). In conclusione, per passare dal ‘prima’ al ‘dopo’ bisogna evitare l’errore del vuoto. Il piano attuale congela la guerra e disegna un perimetro istituzionale senza Hamas, ma non può bastare da solo a ‘chiudere’ la resistenza: la trasforma. O la si canalizza dentro processi politici legittimi, verificabili e inclusivi, oppure riemergerà come resistenza sociale (scioperi, boicottaggi, campagne legali) o, peggio, come resistenza clandestina. L’unico ‘dopo’ sostenibile tiene insieme sicurezza, diritti e rappresentanza. Il cessate il fuoco è un inizio; la legittimità sarà la vera vittoria, per tutti.

Roberto Rapaccini