L’avvio
della prima fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza — inserito nel piano
in 20 punti promosso da Donald Trump — apre una finestra, stretta ma reale, su
un passaggio d’epoca: dal ciclo della resistenza armata a un ciclo di
ri-politicizzazione della causa palestinese. Il piano, annunciato a fine
settembre, ha avuto un’accelerazione l’8–9 ottobre con la definizione della
prima fase: cessate il fuoco, rilascio di ostaggi e prigionieri, arretramento
militare israeliano su linee concordate. La demilitarizzazione della Striscia
rientra nella fase successiva del pacchetto, e su questo punto permangono
divergenze: per Israele la guerra termina solo dopo il disarmo, mentre per
Hamas il punto di svolta è legato alla liberazione degli ostaggi e al ritiro. È
qui che si gioca il ‘dopo’. Chi rappresenterà i palestinesi nel nuovo quadro?
L’architettura proposta separa sicurezza e ‘governance’, ma traccia anche un
perimetro: nessun ruolo per Hamas e per le formazioni armate nella gestione
istituzionale di Gaza. È una clausola che può favorire un cessate il fuoco
stabile, ma rischia di sganciare una parte consistente della base sociale dalla
rappresentanza formale. Se questa esclusione non sarà compensata da canali di
partecipazione politica (municipi, sindacati, associazioni di quartiere,
elezioni locali, consultazioni interne all’OLP), il conflitto potrebbe ricadere
nella clandestinità, spostandosi dalle istituzioni alla strada. L’OLP,
attraverso l’Autorità Palestinese, ha accolto con prudente favore il piano in 20
punti promosso da Trump, considerandolo un possibile passo verso la fine della
guerra e la riunificazione istituzionale tra Gaza e Cisgiordania. Pur
sostenendo il cessate il fuoco, la liberazione dei prigionieri e la necessità
di un governo palestinese unitario, la leadership dell’OLP chiede garanzie
sulla sovranità palestinese effettiva e sul superamento dell’assedio. Il suo
obiettivo è recuperare un ruolo politico e amministrativo a Gaza, oggi precluso
a Hamas, ma senza apparire come esecutore di decisioni imposte dall’esterno. In
questa fase l’OLP si colloca dunque come interlocutore moderato e
istituzionale, favorevole a una transizione ordinata ma attento a evitare di
legittimare una ‘pace amministrata’ che non risolva le cause profonde del
conflitto. La ‘resistenza senza armi’ potrà avere tre possibili direttrici: il ‘dopo’
potrebbe correre su tre binari coordinati — quelli della politica, della
giustizia internazionale e della mobilitazione civile.
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Sul piano politico-istituzionale potranno essere necessarie: la riforma o la
riattivazione dell’OLP con l’inclusione o almeno la consultazione strutturata
delle correnti oggi escluse; elezioni locali a Gaza; una ricomposizione minima
con la leadership in Cisgiordania per evitare un ‘doppio Stato’ palestinese di
fatto.
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Sul piano civile-nonviolento: si evidenzia l’opportunità di creare reti di
comitati, campagne BDS (Boycott, Divestment and Sanctions - strumenti
non-violenti di pressione politica e civile volti a spostare il conflitto dal piano
militare a quello economico, giuridico e simbolico), azioni di advocacy legale
(azioni di
difesa e promozione dei diritti attraverso gli strumenti giuridici),
documentazione sistematica delle violazioni, pressione su forniture militari e
riconoscimenti diplomatici; è questo il terreno dove la legittimità
internazionale pesa di più.
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Sul piano giuridico-diplomatico: sarà importante l’uso coordinato delle sedi
ICC (Corte Penale Internazionale) e ICJ (Corte Internazionale di Giustizia),
insieme agli strumenti ONU sui diritti umani, puntando su responsabilità
individuali e misure di protezione per i civili; parallelamente, si articolerà
il lavoro di monitoraggio con i mediatori regionali (Qatar, Egitto, Turchia)
che hanno costruito l’accordo.
È
essenziale evitare vuoti di potere. Ogni demilitarizzazione efficace richiede
un pacchetto DDR (disarmo, smobilitazione, reintegrazione). Senza un meccanismo
credibile — incentivi economici, amnistie condizionate, garanzie personali, integrazione
selettiva di quadri non implicati in crimini gravi nella sicurezza civile — il
rischio è la frammentazione: micro-milizie, clan armati e criminalità
organizzata occuperanno lo spazio lasciato dalle brigate. In parallelo, Israele
dovrà rispettare ritiri e corridoi per aiuti e mobilità commerciale, altrimenti
ogni ‘pace’ resterà di carta e verrà delegittimata sul campo nel giro di
settimane. È opportuna un’unica cornice di legittimazione per Gaza e
Cisgiordania. Il cessate il fuoco a Gaza non cancella la pressione coloniale in
Cisgiordania (insediamenti, incursioni, arresti). Se il ‘dopo’ si limita alla
Striscia, la narrativa della resistenza resterà attiva a Nablus, Jenin e
Hebron. Servono misure simmetriche: stop alle espansioni, protezione delle comunità,
riforma coordinata delle forze di polizia palestinesi, roadmap su Gerusalemme
Est. Senza una cornice unica, ogni transizione istituzionale a Gaza sarà
percepita come amministrazione dell’assedio, non come percorso di
autodeterminazione. La ricostruzione deve integrarsi con la politica pubblica.
Non è solo ingegneria: è politica pura. Cantieri, appalti, forniture di
cemento, energia e acqua disegnano nuove reti di potere. Trasparenza,
anticorruzione, quote per imprese locali, corridoi per export e lavoro
transfrontaliero sono essenziali per spostare il consenso dalla logica della
milizia alla logica dello Stato sociale (scuole, ospedali, case). In assenza di
ciò, la povertà cronica alimenta la resilienza armata e svuota di senso il
tavolo politico. Restano alcune incertezze decisive. Il pacchetto Trump tiene
insieme ostaggi, ritiro a linee concordate e fasi successive sul disarmo, con
la mediazione di Qatar, Egitto e Turchia. Due incognite restano centrali:
Senza
meccanismi vincolanti, i precedenti dimostrano che i cessate il fuoco possono
logorarsi e saltare. Si deve uscire dalla resistenza senza tradirla. Un impegno
formale, sottoscritto da tutte le famiglie politiche palestinesi — incluse
quelle oggi proscritte a livello di governo ma non criminalmente implicate —
dovrebbe prevedere principi condivisi (diritti, fine dell’occupazione,
elezioni, separazione tra milizia e Stato), forme consultive assembleari con
potere di iniziativa su bilancio e ricostruzione, giustizia selettiva con
priorità ai crimini contro civili e percorsi di giustizia riparativa per reati
minori collegati al conflitto, nonché tutele credibili per chi depone le armi.
La rappresentanza dell’OLP va aggiornata, aprendo canali di competizione
politica regolata che sostituiscano la competizione militare. Ogni fase deve
avere una verifica esterna. Una missione mista arabo-internazionale dovrebbe
monitorare ritiro, scambi di prigionieri, corridoi umanitari e la fine
effettiva del blocco (misura da definire in sede negoziale). In conclusione,
per passare dal ‘prima’ al ‘dopo’ bisogna evitare l’errore del vuoto. Il piano
attuale congela la guerra e disegna un perimetro istituzionale senza Hamas, ma
non può bastare da solo a ‘chiudere’ la resistenza: la trasforma. O la si
canalizza dentro processi politici legittimi, verificabili e inclusivi, oppure
riemergerà come resistenza sociale (scioperi, boicottaggi, campagne legali) o,
peggio, come resistenza clandestina. L’unico ‘dopo’ sostenibile tiene insieme
sicurezza, diritti e rappresentanza. Il cessate il fuoco è un inizio; la
legittimità sarà la vera vittoria, per tutti.
Roberto
Rapaccini

