RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

giovedì 23 ottobre 2025

LA STRATEGIA DEI CONFLITTI PER PROCURA, COMBATTERE SENZA DICHIARARE GUERRA (2025)




Le guerre per procura sono di grande importanza: per capire lo scacchiere geopolitico attuale è necessario sapere come si combatte oggi senza dichiarare guerra. Infatti, c’è un modo di combattere che non prevede dichiarazioni ufficiali, fronti chiari o bandiere issate sui carri armati. È la guerra per procura, o proxy war: una forma di conflitto in cui le grandi potenze scelgono di non sporcarsi direttamente le mani, ma di sostenere — con denaro, armi o intelligence — altri soggetti che combattono per loro. È una guerra delegata, combattuta da terzi, ma che serve a regolare conti tra attori molto più grandi. In apparenza queste guerre non coinvolgono direttamente gli sponsor esterni: non ci sono soldati americani o russi in prima linea, né dichiarazioni formali di ostilità. Eppure, dietro ogni fazione c’è un filo che conduce altrove, verso capitali lontane, sale operative, interessi energetici e strategie di influenza. Durante la Guerra Fredda le proxy war furono il linguaggio con cui Stati Uniti e Unione Sovietica si affrontarono senza arrivare al conflitto nucleare diretto. Corea, Vietnam, Afghanistan, Angola, Nicaragua: in ciascuna di queste guerre locali si combatteva in realtà una battaglia globale tra due ideologie, due modelli di mondo, due sistemi economici. Ma le guerre per procura non appartengono al passato: nel mondo multipolare del XXI secolo sono tornate più attuali che mai. Solo che oggi si combattono anche con armi digitali, droni, milizie private e campagne di disinformazione. L’essenza di una guerra per procura è semplice: un attore esterno — uno Stato, un’alleanza o talvolta un gruppo economico — decide di appoggiare una parte in conflitto in un paese terzo. Può farlo con armi, fondi, addestramento militare, tecnologia o copertura politica. L’obiettivo è influenzare l’esito del conflitto a proprio vantaggio, ma senza pagare il prezzo politico e umano di un intervento diretto. Per questo la guerra per procura è spesso il terreno ideale per le potenze medie: Iran, Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi, ma anche potenze globali che vogliono evitare il coinvolgimento aperto, come gli Stati Uniti, la Russia o la Cina. È una strategia a basso rischio — almeno in apparenza — che consente di proiettare potere a distanza, di logorare l’avversario e di mantenere una forma di plausibile negazione (“non siamo noi, sono loro”). Ma ogni delega comporta un rischio: il controllo del ‘proxy’ non è mai totale. Un gruppo armato sostenuto oggi può diventare domani un nemico, come accadde con i mujaheddin afghani degli anni ’80, addestrati e finanziati dagli Stati Uniti per combattere l’URSS e poi trasformatisi in cellule del terrorismo internazionale. La logica della delega militare è diventata il linguaggio geopolitico del nostro tempo. Il conflitto tra Russia e Ucraina è il caso più emblematico. Formalmente è una guerra tra due Stati sovrani; in realtà, rappresenta anche lo scontro tra Mosca e l’Occidente. L’Ucraina riceve sostegno militare, economico e tecnologico da Stati Uniti, Unione Europea e NATO; la Russia, isolata ma non sola, ha trovato sponde in Iran, Corea del Nord e in parte nella Cina. Ogni missile, ogni drone, ogni sistema di difesa fornito a Kyiv è una mossa nella scacchiera della competizione globale tra democrazie occidentali e blocchi autoritari. Dal 2014 lo Yemen è devastato da un conflitto che è, a tutti gli effetti, una guerra per procura tra Iran e Arabia Saudita. Teheran appoggia i ribelli sciiti Houthi; Riyad guida una coalizione sunnita a sostegno del governo legittimo. Dietro la facciata di una guerra civile locale si cela lo scontro tra due visioni del Medio Oriente, due islam, due potenze regionali. Negli ultimi mesi gli attacchi degli Houthi alle navi commerciali nel Mar Rosso hanno mostrato quanto lontano possano estendersi gli effetti di una proxy war. La guerra siriana è stata forse il caso più complesso del secolo: un intreccio di alleanze, milizie e sponsor esterni. Iran e Russia a sostegno di Assad; Turchia e Stati Uniti a supporto di diverse fazioni ribelli e curde. Il risultato è stato un conflitto pluristratificato, in cui ogni potenza ha cercato di ritagliarsi una zona d’influenza, mentre il paese reale veniva ridotto in macerie. Non è mai stato dichiarato apertamente, ma il confronto tra Israele e Iran si gioca ormai su più piani: dal Libano, dove agisce Hezbollah, a Gaza, con Hamas e nel cyberspazio. È una guerra per procura permanente, condotta attraverso droni, intelligence, sabotaggi e operazioni ombra. Dietro le esplosioni a Damasco o a Beirut, dietro le cyber-offensive che paralizzano infrastrutture o centrali nucleari, si muove una guerra fredda regionale che raramente appare nei titoli dei giornali ma non si ferma mai. In Sudan, dove dal 2023 si affrontano l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido, diversi paesi esterni — Egitto, Emirati, Libia — sostengono una o l’altra parte. Nel Sahel la presenza del gruppo Wagner (ora formalmente riorganizzato) mostra come la Russia utilizzi mercenari e compagnie militari private come strumenti di influenza a basso costo. Anche qui si combattono guerre altrui per interessi di risorse, rotte commerciali, e accesso ai porti strategici. Le guerre per procura sono comode per chi le alimenta e devastanti per chi le subisce. Il terrorismo nel mondo contemporaneo è diventato un elemento strutturale dentro le guerre per procura. Laddove un tempo il terrore agiva ai margini della storia, oggi ne è parte integrante: un mezzo per destabilizzare un nemico senza affrontarlo apertamente. È una forma di violenza che permette di agire nell’ombra, di colpire con precisione chirurgica o di generare caos diffuso, ma sempre con un basso costo politico. Chi finanzia o addestra un gruppo armato può negare ogni coinvolgimento diretto, mentre gli effetti della sua azione si riverberano sul piano militare, mediatico e psicologico. Il terrorismo contemporaneo è spesso una tattica delegata, un’arma che agisce per procura dentro la guerra per procura. Gli Stati che non vogliono o non possono intervenire direttamente possono scegliere di sostenere gruppi armati irregolari che, a loro volta, adottano la violenza terroristica come strumento di pressione. Così, il confine tra resistenza, guerriglia e terrorismo si fa sempre più labile. Un gruppo può essere definito terrorista da un governo e combattente della libertà da un altro, a seconda della prospettiva e degli interessi in gioco. Questi conflitti irregolari possono durare più a lungo delle guerre convenzionali perché i finanziamenti esterni impediscono che una parte crolli del tutto. Creano crisi umanitarie croniche, spostano milioni di persone, e trasformano paesi fragili in campi di battaglia permanenti. Eppure, nel mondo globalizzato la logica del proxy sembra irresistibile: permette alle potenze di agire sotto la soglia, di testare armi, di sperimentare strategie e di misurare la propria influenza senza pagare il prezzo politico di una guerra ufficiale. Il risultato è una guerra diffusa, opaca, frammentata, che attraversa i confini e confonde la pace con la tregua. Se la guerra moderna è per procura, anche la pace rischia di esserlo. Gli stessi attori che sostengono i conflitti sono spesso coloro che negoziano cessate-il-fuoco e accordi parziali, non per altruismo ma per convenienza. Nel mondo di oggi, nessuna guerra è davvero locale: ogni conflitto riflette una rete di interessi globali che si incrociano, si sovrappongono, si contraddicono. Capire le guerre per procura significa, guardare dietro il sipario: capire chi muove i fili, chi li taglia e chi resta intrappolato nella rete. Roberto Rapaccini