L’Iran,
divenuto una Repubblica islamica teocratica con la rivoluzione di Khomeini del
1979, si muove in Medio Oriente con un obiettivo chiaro: opporsi all’influenza
degli Stati Uniti e di Israele e costruire intorno a sé una cintura di alleati
che ne aumenti il peso negoziale. Per farlo non punta solo su alleanze con
governi ufficiali, ma soprattutto su una fitta rete di “proxy”: gruppi armati o
movimenti politici non statali che ricevono dal regime iraniano fondi, armi,
addestramento e copertura diplomatica e che, in cambio, contribuiscono a
estendere l’influenza di Teheran. Questi “proxy” – letteralmente “delegati” o
“intermediari” – agiscono come braccia esterne dell’Iran: Hezbollah in Libano,
le milizie sciite in Iraq, i ribelli Houthi in Yemen, la Jihad islamica e Hamas
nei territori palestinesi. È ciò che gli analisti chiamano “Asse della
Resistenza”. Questa strategia spiega anche l’ambivalenza iraniana sul tema del
terrorismo. Per Teheran gruppi come Hezbollah o Hamas non sono “terroristi” ma
movimenti di resistenza contro Israele; per molti governi occidentali, invece,
il loro uso della violenza contro civili li colloca a pieno titolo nella categoria
delle organizzazioni terroristiche. Allo stesso tempo l’Iran combatte duramente
i jihadisti sunniti come l’ISIS, che considera una minaccia diretta ai propri
interessi e al proprio territorio. Ne deriva un quadro paradossale: accusato da
molti Paesi di essere il principale sponsor statale del terrorismo, l’Iran si
presenta come vittima del terrorismo altrui. Il rapporto con Hamas è il caso
più emblematico. Hamas nasce nel 1987, durante la Prima Intifada, come braccio
palestinese dei Fratelli Musulmani: un movimento sunnita islamista che voleva
distinguersi dall’OLP laica. In questa genesi paradossale ebbe un peso anche
Israele: negli anni ’70-’80 le autorità israeliane, nel tentativo di indebolire
l’OLP, tollerarono e in alcuni casi favorirono la crescita delle associazioni
islamiche che poi avrebbero dato vita ad Hamas, ritenendole un contrappeso
utile al nazionalismo palestinese di stampo laico. Questo non significa che
Israele abbia “creato” Hamas nel senso diretto del termine, ma che alcune sue scelte
contribuirono involontariamente a rafforzare quella corrente islamista che, con
l’Intifada, si sarebbe trasformata nel nuovo attore militante. All’inizio i
rapporti tra Hamas e Teheran erano quasi inesistenti: sunniti contro sciiti,
contesti molto diversi. Ma con il passare degli anni, e soprattutto con
l’isolamento internazionale di Hamas dopo la vittoria elettorale del 2006 nella
Striscia di Gaza e la conseguente presa
di potere nel 2007, l’Iran diventò un partner indispensabile: finanziamenti, addestramento,
armi, copertura politica. Hamas, pur mantenendo una sua autonomia, trovò
nell’Iran l’unico grande sponsor disposto a sostenerlo quando altri lo
abbandonavano. La cornice di questa politica è data dai rapporti di Teheran con
gli Stati Uniti e con il resto del mondo arabo. Con Washington il rapporto è di
ostilità cronica: dal rovesciamento dello Scià nel 1979 e dalla crisi degli
ostaggi in poi, le relazioni diplomatiche sono interrotte. Le sanzioni
americane hanno colpito duramente l’economia iraniana, e ogni tentativo di
accordo – come il negoziato sul nucleare – è stato fragile e controverso. Con
il mondo arabo la situazione è più sfumata: l’Iran compete con le monarchie
sunnite del Golfo (Arabia Saudita, Emirati) per l’egemonia regionale, ma negli
ultimi anni sono apparsi anche tentativi di disgelo e negoziati bilaterali per
ridurre le tensioni. Molti Stati arabi, pur ostili all’espansionismo iraniano,
vedono naturalmente anche Hamas come parte della questione palestinese e
oscillano fra condanna e sostegno. Nel complesso l’Iran resta un attore
centrale ma sotto pressione. Le sanzioni e i problemi economici limitano la sua
capacità di sostenere i movimenti amici; gli attacchi israeliani contro le sue
strutture e contro i suoi alleati aumentano il rischio di escalation diretta.
Allo stesso tempo alcuni Paesi del Golfo provano a stabilire rapporti meno
conflittuali con Teheran, creando nuovi equilibri. Così, mentre continua a
usare la leva dei “proxy” per difendere e proiettare la propria influenza,
l’Iran deve muoversi con prudenza per non ritrovarsi coinvolto in una guerra
aperta. E Hamas, nato come movimento locale palestinese, è diventato una pedina
importante di questo gioco regionale, in cui ideologia, interessi strategici e
sopravvivenza politica si intrecciano costantemente.
Roberto
Rapaccini