Recentemente
è stato pubblicato un interessante saggio che smonta il mito della guerra come evento
inevitabile, ribaltando quindi la lettura tradizionale sostenuta dal realismo
politico, ovvero quella che considera la guerra come fatto naturale. In realtà
i conflitti non sono la norma ma solo l’interruzione della pace, che non è un
punto di arrivo, bensì un principio originario e fondante. Il celebre motto
latino si vis pacem, para bellum (se vuoi la pace, prepara la guerra)
ha alimentato una visione politica bellica. Al contrario, la pace non può
ridursi a tregua precaria o a difesa estrema: deve diventare regola
organizzativa della vita collettiva. Nella società contemporanea l’opzione
pacifista o quella bellica dipendono da scelte politiche e culturali. Per garantire
la pace è necessario il rafforzamento delle istituzioni internazionali, come
ONU e Unione Europea, congiuntamente allo sviluppo del diritto e al ricorso a sanzioni
realmente afflittive, come alternativa concreta alla logica militare. La pace
si costruisce come impegno quotidiano, radicato nel dialogo e nella fiducia
reciproca. Questa prospettiva propone un rovesciamento: la pace non è un
risultato da conquistare dopo il conflitto, ma il punto di partenza delle
politiche e delle relazioni sociali. Diversamente secoli di pensiero
occidentale hanno considerato lo stato di natura come guerra. L’idea è
sostenuta dalla cosiddetta ragione bellica, ossia dal sistema di pensiero che giustifica
il conflitto come inevitabile. Criticare la ragione bellica non è un
esercizio accademico, ma un’urgenza politica. Continuare a credere nella guerra
come destino significa condannare l’umanità a un futuro autodistruttivo,
fondato sulla diffidenza. Invertire lo
sguardo significa riconoscere che la normalità è la pace, mentre la guerra è
un’eccezione patologica, un fallimento della politica.Le società esistono
proprio perché hanno creato leggi e istituzioni capaci di regolare i conflitti
senza annientarsi. Ogni giorno miliardi di persone vivono pacificamente: la
pace non è un’utopia, ma la realtà più diffusa e concreta dell’esperienza
umana. La guerra, invece, nasce da un meccanismo politico e psicologico
preciso: la paura. La paura genera sfiducia, che conduce al riarmo, che diventa
minaccia reciproca e trasforma la sicurezza promessa dalle armi in insicurezza
permanente. La storia lo dimostra: ogni corsa agli armamenti produce soltanto escalation.
La sicurezza non deriva dall’accumulo di armi, ma dalla costruzione di
relazioni di fiducia, sostenute da regole condivise, istituzioni comuni e una
cultura politica orientata alla cooperazione. In questo quadro il diritto
assume un ruolo decisivo, non come apparato repressivo, ma come strumento
positivo di pace: ciò che negli Stati consente di risolvere i conflitti senza
violenza privata, a livello internazionale permette ai popoli di convivere
senza affidarsi all’equilibrio del terrore. Le organizzazioni multilaterali non
sono utopie, ma infrastrutture necessarie: spesso fragili, certo, ma da
rafforzare, non da delegittimare. C’è chi definisce questa visione ingenuità
pacifista. Ma ciò che ieri appariva ingenuo, oggi è divenuto norma: la
schiavitù era ritenuta inevitabile, oggi è un crimine; le donne escluse dalla
cittadinanza politica, oggi votano. Allo stesso modo la guerra può diventare un
tabù sociale, stigmatizzata come intollerabile. I conflitti continueranno a
esistere, ma non devono tradursi in violenza: possono diventare occasioni di
mediazione e confronto, come avviene nelle democrazie. In questo senso la critica
della ragione bellica non è utopia idealista, ma autentico realismo
politico, che ritiene che la pace sia il contesto naturale dell’agire umano. Se
vogliamo garantire sicurezza e dignità, dobbiamo pensare la pace non come
tregua fragile, ma come impegno costante fondato sulla responsabilità reciproca, da affidare a
istituzioni giuridiche forti e ad una cultura politica solida e strutturata in
grado di sostituire la logica delle armi con quella della cooperazione. Roberto Rapaccini