Il
Medio Oriente resta un’area molto instabile. Il conflitto Israele-Gaza non ha mai
avuto apprezzabili pause: la situazione è di fragile tregua, con continui
scontri a bassa intensità. La questione umanitaria è drammatica e le tensioni
regionali (Iran-Israele, Hezbollah in Libano) restano alte, alimentate anche
dalla polarizzazione tra Occidente e blocco russo-cinese. L’Iran, in
particolare, continua a espandere la propria influenza su Siria, Iraq e Yemen,
ma è anche sotto forte pressione interna per via delle proteste economiche e
sociali. Nel Golfo, Arabia Saudita e gli Emirati cercano un delicato equilibrio
tra la storica alleanza con gli Stati Uniti e la progressiva apertura verso
Pechino e Mosca, giocando su più tavoli (energia, investimenti, sicurezza). Il
conflitto in Ucraina è ormai diventato una guerra di logoramento. La Russia
controlla ancora vaste aree dell’Est e Sud del Paese, ma non è riuscita a
sfondare ulteriormente. L’Occidente sostiene Kiev, ma il flusso di aiuti
militari e finanziari è diventato meno prevedibile, soprattutto dopo il ritorno
di Trump alla presidenza americana e le difficoltà economiche in Europa. Il
rischio di escalation (anche nucleare tattica) resta basso, ma non nullo. Intanto
la popolazione ucraina è stremata e la prospettiva di una pace stabile appare
ancora lontana. L’Europa vive un periodo di incertezza. La crisi ucraina ha
provocato una forte crisi energetica e un rallentamento economico, aggravato
dal rallentamento cinese e da tensioni politiche interne (in molti Paesi cresce
la destra nazionalista e il malcontento verso l’UE). La coesione europea è
messa alla prova su molti fronti: gestione dei migranti, politica di difesa
comune, relazioni con USA e Cina. Sul piano della sicurezza, l’Europa è più
consapevole della necessità di rafforzare le proprie capacità difensive, ma la
dipendenza dagli USA resta forte, anche se molti Paesi sono preoccupati del
disimpegno americano. Negli Stati Uniti la politica estera è sempre più
condizionata dalla rivalità interna tra repubblicani e democratici. Trump,
tornato alla Casa Bianca, ha ridotto la pressione militare su scala globale,
preferendo un approccio più isolazionista, anche se rimane duro con la Cina;
cerca di ridimensionare il sostegno a Kiev, chiedendo all’Europa di fare di
più. Sul fronte interno, i problemi sociali ed economici (inflazione,
migrazioni, polarizzazione politica) occupano la maggior parte dell’agenda. La
Cina continua la sua ascesa, pur affrontando un rallentamento economico e
difficoltà interne (debito, crisi immobiliare, invecchiamento della
popolazione). Pechino rafforza la sua influenza in Africa, Asia e America
Latina, proponendosi come alternativa al modello occidentale, soprattutto
attraverso investimenti infrastrutturali. Sul fronte di Taiwan la situazione
resta tesa, ma nessuna delle parti sembra voler forzare la mano nel breve
termine. Tuttavia, l’escalation nel Mar Cinese Meridionale e lo scontro
tecnologico con gli USA sono questioni molto aperte. L’Africa è sempre più terreno di scontro tra
Cina, Russia, Europa e USA per risorse e influenza. Colpi di Stato e
instabilità (Sahel) restano all’ordine del giorno. In America Latina la
polarizzazione politica continua, ma le economie risentono sia del
rallentamento globale sia delle difficoltà interne. Brasile, Messico e
Argentina cercano un ruolo maggiore, ma le crisi sociali frenano la crescita. Le
prospettive globali sono segnate dall’incertezza. La transizione verso un nuovo
ordine mondiale è in corso, ma frammentata. Le grandi potenze sono in
competizione strategica, mentre i rischi di crisi locali (militari, economiche,
migratorie) possono facilmente degenerare per errore o calcolo politico. Sul
piano economico il rallentamento della Cina e la fine dell’era dei tassi bassi
stanno rimodellando le catene di fornitura e gli equilibri finanziari globali.
Il rischio principale resta la gestione di crisi simultanee: se una delle aree
calde (Taiwan, Ucraina, Medio Oriente) dovesse esplodere, le conseguenze
sarebbero mondiali. Al di là dei grandi teatri (Medio Oriente, Ucraina, Cina),
ci sono altre aree del pianeta che stanno vivendo evoluzioni importanti, spesso
meno visibili ma comunque potenzialmente destabilizzanti o cariche di
opportunità geopolitiche. Ecco un quadro delle zone calde o in rapida
trasformazione. L’Africa, subsahariana in particolare resta estremamente
dinamica e per certi versi imprevedibile. Negli ultimi anni una cintura di
colpi di Stato ha interessato diversi Paesi tra Sahel e Africa occidentale
(Mali, Burkina Faso, Niger, Gabon, Guinea). La presenza russa (Wagner e
successori) si è rafforzata a scapito di Francia e Occidente. Le crisi di
sicurezza (jihadismo, milizie locali, traffico di esseri umani) si intrecciano
con la competizione per le risorse (oro, uranio, petrolio). Il rischio di
espansione di nuovi conflitti è concreto, specialmente se il Sahel resta fuori
controllo. In Africa Orientale l’Etiopia, dopo la guerra in Tigray, cerca di
riprendersi ma restano tensioni etniche e politiche. Somalia, Sud Sudan e Congo
sono ancora polveriere perenni, mentre Kenya, Tanzania e Ruanda tentano una via
di crescita più stabile. In Asia sud-orientale l’epicentro delle tensioni è il
Myanmar (ex Birmania), con una guerra civile in corso tra giunta militare,
gruppi etnici armati e movimento democratico. L’instabilità qui rischia di
propagarsi a Thailandia, Bangladesh, India nord-orientale e Cina meridionale,
con crisi umanitarie e flussi migratori. Anche il Mar Cinese Meridionale rimane
una zona calda, con contese tra Cina, Vietnam, Filippine, Malesia e Indonesia
su isole e diritti marittimi. Qui il rischio è più di scontri navali limitati
che di vera guerra, ma la tensione cresce ogni anno. Per quanto riguarda il Caucaso
e l’Asia Centrale, dopo la guerra del Nagorno-Karabakh, Armenia e Azerbaigian
sono ancora in una situazione delicata. La Russia, tradizionale garante, è ora
più distratta dall’Ucraina, lasciando spazio a Turchia e Iran. La Georgia resta
inquieta tra spinte pro-occidentali e pressioni russe. L’Asia Centrale
(Kazakistan, Uzbekistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan) è sotto i
riflettori per la sua posizione tra Russia, Cina, Iran e Turchia. Il Kazakistan,
in particolare, sta rafforzando legami con la Cina e l’UE, cercando di uscire
dalla storica sfera di influenza russa. Nell’Indo-Pacifico, oltre a Taiwan, va
seguita l’India. L’India punta ad assumere un ruolo da superpotenza, anche come
contrappeso regionale alla Cina. I rapporti con il Pakistan restano tesi,
specie in Kashmir, mentre cresce il protagonismo dell’India nelle
organizzazioni multilaterali (BRICS, Quad). I Balcani occidentali sono una
regione europea spesso trascurata ma mai davvero pacificata. Serbia, Kosovo,
Bosnia-Erzegovina e Macedonia del Nord restano fragili: la retorica
nazionalista cresce, e la Russia tenta ancora di esercitare influenza tramite
la Serbia, mentre l’UE appare titubante su eventuali nuovi allargamenti. L’Artico
non è una zona calda in senso militare, ma lo sta diventando in termini di
competizione per le risorse (idrocarburi, rotte marittime) e di presenza
militare (Russia, Canada, Norvegia, USA, Cina). Lo scioglimento dei ghiacci
apre nuove vie commerciali e tensioni su chi avrà il controllo delle future
rotte e dei minerali artici. In Oceania e nella regione del Pacifico la Cina
sta facendo forti investimenti (infrastrutture, debito) nelle isole del
Pacifico (Salomone, Fiji, Papua Nuova Guinea, Kiribati), sfidando la storica
influenza di Australia e USA. Gli equilibri sono delicatissimi, tra promesse di
sviluppo e rischio di nuova dipendenza. In sintesi, il mondo è sempre più
multipolare e frammentato, con molte zone grigie dove la competizione tra
grandi potenze si gioca in modo indiretto attraverso crisi locali, investimenti
strategici e soft power. La globalizzazione resta ma sotto pressione: sempre
più Paesi cercano di giocare su più tavoli, sfruttando la competizione tra
grandi blocchi.