Israele attraversa una fase di instabilità politica senza precedenti. La coalizione guidata da Benjamin Netanyahu è oggi sospesa su un filo dopo l’uscita il 15 luglio 2025 di United Torah Judaism (UTJ), formazione ultraortodossa che ha abbandonato il governo per protesta contro la proposta di una nuova impostazione della legge sulla leva militare. Il provvedimento, sostenuto anche da settori laici e nazionalisti della coalizione, prevede di imporre a un numero crescente di giovani Haredi l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) o in un servizio civile alternativo, riducendo le storiche esenzioni per gli studenti delle yeshivot, le scuole religiose ebraiche dedicate allo studio approfondito della Torah e del Talmud, finalizzate a formare rabbini, studiosi e a garantire un’educazione religiosa estesa. Infatti, per decenni gli uomini ultraortodossi, impegnati nello studio a tempo pieno, hanno goduto di un’esenzione dal servizio militare obbligatorio; tale circostanza viene considerata dalla loro comunità un pilastro identitario e un riconoscimento del valore dello studio dei testi sacri come forma di servizio alla nazione. La riforma agli occhi dei leader di UTJ trasforma una questione religiosa e culturale in un terreno di scontro politico, minando un compromesso risalente alla nascita dello Stato e giustificando pertanto una rottura con Netanyahu nonostante il rischio di far cadere l’esecutivo. La conseguenza è una maggioranza risicata di 61 seggi su 120 e una trattativa permanente con gli alleati religiosi, mentre il tema del reclutamento mobilita piazze, riservisti e leadership rabbiniche. Sul fronte bellico l’8 agosto il gabinetto di sicurezza ha approvato un piano per assumere il controllo di Gaza City come parte di un’offensiva più ampia. La decisione ha suscitato un’immediata reazione internazionale: dal monito del Segretario generale dell’ONU - che ha parlato di pericolosa escalation - al pressing di Turchia ed Egitto per una risposta unitaria del mondo musulmano. All’interno di Israele il Forum delle famiglie degli ostaggi ha sollecitato i vertici militari a non allargare il conflitto, temendo ripercussioni sugli sforzi di liberazione. Si è così approfondita la frattura tra il premier e lo Stato maggiore: il capo dell’IDF Eyal Zamir, sostiene una strategia alternativa basata su assedio e logoramento, ritenuta meno costosa e più compatibile con un accordo sugli ostaggi rispetto a un’occupazione urbana prolungata. Intanto, ex alti ufficiali dell’esercito e dell’intelligence moltiplicano gli appelli per un cessate il fuoco e uno scambio esteso di prigionieri. In parallelo, procede la riconfigurazione istituzionale voluta dal governo. Il 26 marzo 2025 la Knesset ha approvato un emendamento alla legge fondamentale sulla magistratura che ridisegna la composizione del comitato di selezione dei giudici, aumentando il peso delle nomine politiche e riducendo quello delle componenti indipendenti, comprese quelle togatarie e dell’ordine degli avvocati. L’opposizione ha boicottato il voto, annunciando ricorsi e campagne per un ritorno allo status quo, mentre l’esecutivo ha difeso la riforma come un riequilibrio dei poteri. Sul piano internazionale il dossier Gaza sta erodendo capitale politico e militare. Alle condanne ONU si aggiungono altre misure concrete, come la sospensione di forniture da parte della Germania. I mediatori — Egitto, Qatar, Stati Uniti — continuano a mantenere aperto un canale per una tregua e per la liberazione degli ostaggi. La prosecuzione delle operazioni, con effetti umanitari drammatici e massicci sfollamenti, alimenta l’esposizione legale di Israele ad accuse pesanti — respinte da Gerusalemme — e accresce i costi reputazionali, con ricadute su cooperazione in materia di difesa e relazioni commerciali. Il quadro politico-elettorale è in movimento. Naftali Bennett ha lanciato Bennett 2026, un partito strutturato in chiave iper-presidenziale per garantire disciplina interna, che i sondaggi accreditano come potenziale leader di un blocco alternativo. Con la coalizione spaccata sul reclutamento di Haredi resta aperta la possibilità di elezioni anticipate se Shas (il partito politico israeliano ultraortodosso di orientamento sefardita-mizrahi, fondato nel 1984 da un gruppo di rabbini e attivisti guidati dal rabbino Ovadia Yosef) o altre formazioni minori decideranno di alzare il prezzo politico o se UTJ non troverà un compromesso per rientrare. Si delineano tre scenari principali. Il primo è una deriva di guerra controllata, con l’IDF che mantiene alta la pressione su Gaza City senza un’occupazione estesa, conducendo operazioni mirate, garantendo corridoi umanitari e portando avanti negoziati sugli ostaggi. È l’opzione preferita dai militari e la più accettabile per i partner occidentali, ma richiede una coesione di governo oggi difficile. Il secondo è un’occupazione limitata espansiva, cioè l’ingresso e il presidio prolungato delle aree centrali della Striscia per creare un perimetro di sicurezza: questa scelta aumenterebbe le perdite e le frizioni diplomatiche con possibili ulteriori sospensioni di forniture e un isolamento nelle sedi multilaterali, aggravando al contempo il logorio interno e il rischio di crisi di governo. Il terzo scenario è una tregua negoziata, trainata da uno scambio su larga scala ostaggi/detenuti e da una gestione arabo-internazionale della sicurezza post-bellica: un’opzione osteggiata dalla destra radicale, ma che potrebbe emergere come soluzione di compromesso se mutassero i rapporti di forza interni (rientro o uscita definitiva di UTJ, eventuali scelte strategiche di Shas, o shock economico/militare). Nel breve termine tra settembre e dicembre 2025 il futuro del governo dipenderà dall’esito di tre prove: la nuova formulazione del draft bill per gli Haredi (il già citato disegno di legge che riguarda la partecipazione al servizio di leva degli ebrei ultraortodossi), la decisione operativa su Gaza City e la reazione degli alleati, e l’avvio delle prime nomine giudiziarie con il nuovo comitato, che mostreranno l’impatto della riforma e la risposta dei mercati e delle agenzie di rating al rischio istituzionale. Un errore su uno di questi dossier potrebbe innescare una crisi formale. Nel medio termine, nei primi sei-dodici mesi del 2026, è verosimile l’apertura di un ciclo elettorale: se il governo non porterà risultati tangibili su ostaggi e sicurezza, e se la fronda militare resterà esplicita, l’opposizione tenterà di capitalizzare promettendo sicurezza senza occupazione permanente e una revisione della riforma giudiziaria per rassicurare partner e investitori; in caso contrario un Netanyahu ancora saldo punterà a rafforzare il controllo interno con nuove norme e nomine chiave, al prezzo però di un’ulteriore usura internazionale. Sul fronte di Gaza le scelte strategiche avranno riflessi immediati: proseguire con operazioni ad alta intensità manterrà elevato il danno umanitario e la pressione legale, irrigidendo le posizioni di Europa e mondo arabo; optare per una strategia di logoramento con corridoi stabili e negoziati sugli ostaggi ridurrebbe il rischio di sanzioni informali e riaprirebbe spazi di cooperazione; una tregua mediata, infine, potrebbe migliorare sensibilmente i rapporti con Washington, Berlino e Bruxelles, ponendo le basi per un’amministrazione internazionale della Striscia sostenuta da fondi del Golfo e da garanzie di sicurezza multilivello. In sintesi, Israele si trova intrappolato in un triangolo di vincoli — la questione Haredi, la guerra a Gaza e la riforma della magistratura — che si influenzano e si condizionano a vicenda. Se uno di questi punti di tensione dovesse cedere, l’intero equilibrio politico potrebbe spostarsi verso elezioni anticipate o verso un compromesso più centrista; se invece restassero tutti sotto pressione, il Paese rischierebbe di restare bloccato in un prolungato stallo ad alta temperatura, con costi crescenti tanto all’interno quanto sulla scena internazionale.
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA
TESTO SC.
martedì 12 agosto 2025
ISRAELE, DRIBBLING TRA GUERRA E CRISI POLITICA - NETANYAHU L’EQUILIBRISTA APPESO A UN FILO
Israele attraversa una fase di instabilità politica senza precedenti. La coalizione guidata da Benjamin Netanyahu è oggi sospesa su un filo dopo l’uscita il 15 luglio 2025 di United Torah Judaism (UTJ), formazione ultraortodossa che ha abbandonato il governo per protesta contro la proposta di una nuova impostazione della legge sulla leva militare. Il provvedimento, sostenuto anche da settori laici e nazionalisti della coalizione, prevede di imporre a un numero crescente di giovani Haredi l’arruolamento nelle Forze di Difesa Israeliane (IDF) o in un servizio civile alternativo, riducendo le storiche esenzioni per gli studenti delle yeshivot, le scuole religiose ebraiche dedicate allo studio approfondito della Torah e del Talmud, finalizzate a formare rabbini, studiosi e a garantire un’educazione religiosa estesa. Infatti, per decenni gli uomini ultraortodossi, impegnati nello studio a tempo pieno, hanno goduto di un’esenzione dal servizio militare obbligatorio; tale circostanza viene considerata dalla loro comunità un pilastro identitario e un riconoscimento del valore dello studio dei testi sacri come forma di servizio alla nazione. La riforma agli occhi dei leader di UTJ trasforma una questione religiosa e culturale in un terreno di scontro politico, minando un compromesso risalente alla nascita dello Stato e giustificando pertanto una rottura con Netanyahu nonostante il rischio di far cadere l’esecutivo. La conseguenza è una maggioranza risicata di 61 seggi su 120 e una trattativa permanente con gli alleati religiosi, mentre il tema del reclutamento mobilita piazze, riservisti e leadership rabbiniche. Sul fronte bellico l’8 agosto il gabinetto di sicurezza ha approvato un piano per assumere il controllo di Gaza City come parte di un’offensiva più ampia. La decisione ha suscitato un’immediata reazione internazionale: dal monito del Segretario generale dell’ONU - che ha parlato di pericolosa escalation - al pressing di Turchia ed Egitto per una risposta unitaria del mondo musulmano. All’interno di Israele il Forum delle famiglie degli ostaggi ha sollecitato i vertici militari a non allargare il conflitto, temendo ripercussioni sugli sforzi di liberazione. Si è così approfondita la frattura tra il premier e lo Stato maggiore: il capo dell’IDF Eyal Zamir, sostiene una strategia alternativa basata su assedio e logoramento, ritenuta meno costosa e più compatibile con un accordo sugli ostaggi rispetto a un’occupazione urbana prolungata. Intanto, ex alti ufficiali dell’esercito e dell’intelligence moltiplicano gli appelli per un cessate il fuoco e uno scambio esteso di prigionieri. In parallelo, procede la riconfigurazione istituzionale voluta dal governo. Il 26 marzo 2025 la Knesset ha approvato un emendamento alla legge fondamentale sulla magistratura che ridisegna la composizione del comitato di selezione dei giudici, aumentando il peso delle nomine politiche e riducendo quello delle componenti indipendenti, comprese quelle togatarie e dell’ordine degli avvocati. L’opposizione ha boicottato il voto, annunciando ricorsi e campagne per un ritorno allo status quo, mentre l’esecutivo ha difeso la riforma come un riequilibrio dei poteri. Sul piano internazionale il dossier Gaza sta erodendo capitale politico e militare. Alle condanne ONU si aggiungono altre misure concrete, come la sospensione di forniture da parte della Germania. I mediatori — Egitto, Qatar, Stati Uniti — continuano a mantenere aperto un canale per una tregua e per la liberazione degli ostaggi. La prosecuzione delle operazioni, con effetti umanitari drammatici e massicci sfollamenti, alimenta l’esposizione legale di Israele ad accuse pesanti — respinte da Gerusalemme — e accresce i costi reputazionali, con ricadute su cooperazione in materia di difesa e relazioni commerciali. Il quadro politico-elettorale è in movimento. Naftali Bennett ha lanciato Bennett 2026, un partito strutturato in chiave iper-presidenziale per garantire disciplina interna, che i sondaggi accreditano come potenziale leader di un blocco alternativo. Con la coalizione spaccata sul reclutamento di Haredi resta aperta la possibilità di elezioni anticipate se Shas (il partito politico israeliano ultraortodosso di orientamento sefardita-mizrahi, fondato nel 1984 da un gruppo di rabbini e attivisti guidati dal rabbino Ovadia Yosef) o altre formazioni minori decideranno di alzare il prezzo politico o se UTJ non troverà un compromesso per rientrare. Si delineano tre scenari principali. Il primo è una deriva di guerra controllata, con l’IDF che mantiene alta la pressione su Gaza City senza un’occupazione estesa, conducendo operazioni mirate, garantendo corridoi umanitari e portando avanti negoziati sugli ostaggi. È l’opzione preferita dai militari e la più accettabile per i partner occidentali, ma richiede una coesione di governo oggi difficile. Il secondo è un’occupazione limitata espansiva, cioè l’ingresso e il presidio prolungato delle aree centrali della Striscia per creare un perimetro di sicurezza: questa scelta aumenterebbe le perdite e le frizioni diplomatiche con possibili ulteriori sospensioni di forniture e un isolamento nelle sedi multilaterali, aggravando al contempo il logorio interno e il rischio di crisi di governo. Il terzo scenario è una tregua negoziata, trainata da uno scambio su larga scala ostaggi/detenuti e da una gestione arabo-internazionale della sicurezza post-bellica: un’opzione osteggiata dalla destra radicale, ma che potrebbe emergere come soluzione di compromesso se mutassero i rapporti di forza interni (rientro o uscita definitiva di UTJ, eventuali scelte strategiche di Shas, o shock economico/militare). Nel breve termine tra settembre e dicembre 2025 il futuro del governo dipenderà dall’esito di tre prove: la nuova formulazione del draft bill per gli Haredi (il già citato disegno di legge che riguarda la partecipazione al servizio di leva degli ebrei ultraortodossi), la decisione operativa su Gaza City e la reazione degli alleati, e l’avvio delle prime nomine giudiziarie con il nuovo comitato, che mostreranno l’impatto della riforma e la risposta dei mercati e delle agenzie di rating al rischio istituzionale. Un errore su uno di questi dossier potrebbe innescare una crisi formale. Nel medio termine, nei primi sei-dodici mesi del 2026, è verosimile l’apertura di un ciclo elettorale: se il governo non porterà risultati tangibili su ostaggi e sicurezza, e se la fronda militare resterà esplicita, l’opposizione tenterà di capitalizzare promettendo sicurezza senza occupazione permanente e una revisione della riforma giudiziaria per rassicurare partner e investitori; in caso contrario un Netanyahu ancora saldo punterà a rafforzare il controllo interno con nuove norme e nomine chiave, al prezzo però di un’ulteriore usura internazionale. Sul fronte di Gaza le scelte strategiche avranno riflessi immediati: proseguire con operazioni ad alta intensità manterrà elevato il danno umanitario e la pressione legale, irrigidendo le posizioni di Europa e mondo arabo; optare per una strategia di logoramento con corridoi stabili e negoziati sugli ostaggi ridurrebbe il rischio di sanzioni informali e riaprirebbe spazi di cooperazione; una tregua mediata, infine, potrebbe migliorare sensibilmente i rapporti con Washington, Berlino e Bruxelles, ponendo le basi per un’amministrazione internazionale della Striscia sostenuta da fondi del Golfo e da garanzie di sicurezza multilivello. In sintesi, Israele si trova intrappolato in un triangolo di vincoli — la questione Haredi, la guerra a Gaza e la riforma della magistratura — che si influenzano e si condizionano a vicenda. Se uno di questi punti di tensione dovesse cedere, l’intero equilibrio politico potrebbe spostarsi verso elezioni anticipate o verso un compromesso più centrista; se invece restassero tutti sotto pressione, il Paese rischierebbe di restare bloccato in un prolungato stallo ad alta temperatura, con costi crescenti tanto all’interno quanto sulla scena internazionale.
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