Mentre il
conflitto a Gaza continua a scuotere le coscienze globali e le immagini di
devastazione rimbalzano sui media di tutto il mondo, l’atteggiamento dei
governi arabi verso la causa palestinese appare oggi più prudente e sfumato
rispetto al passato. A fronte di un diffuso sentimento di solidarietà popolare
nei confronti dei palestinesi, le reazioni ufficiali dei governi arabi si limitano
spesso a dichiarazioni di principio e a gesti diplomatici contenuti. Per
comprendere questa apparente discrepanza, è necessario esaminare le dinamiche
geopolitiche, economiche e strategiche che influenzano le scelte dei leader
della regione. Un tempo considerata la causa comune del mondo arabo, la
questione palestinese non occupa più lo stesso spazio prioritario nelle agende
politiche dei governi regionali. Un primo segnale tangibile di questo
cambiamento di approccio è arrivato con la firma degli Accordi di Abramo nel
2020. Questi accordi hanno sancito la normalizzazione delle relazioni
diplomatiche tra Israele e quattro Paesi arabi: Emirati Arabi Uniti, Bahrein,
Sudan e Marocco. Storicamente, la maggior parte degli Stati arabi si era
rifiutata di riconoscere Israele finché non fosse stata raggiunta una soluzione
giusta e definitiva alla questione palestinese. Questo principio era sancito
dalla cosiddetta iniziativa di Pace Araba del 2002, promossa dall’Arabia
Saudita, che subordinava la normalizzazione dei rapporti con Israele al ritiro
dai territori occupati e alla creazione di uno Stato palestinese. Gli Accordi
di Abramo hanno rotto questa linea. Per la prima volta alcuni Stati arabi hanno
deciso di disancorare il proprio interesse nazionale dalla causa palestinese,
firmando intese bilaterali con Israele in cambio di vantaggi economici,
tecnologici e strategici. I motivi di questa svolta sono molteplici. Innanzitutto,
la sicurezza regionale: l’Iran è percepito come una minaccia comune da Israele
e da molte monarchie del Golfo. La cooperazione in ambito militare e
d’intelligence con Israele è vista come una garanzia contro l’espansionismo
iraniano. A ciò si aggiungono importanti interessi economici: Israele è una
potenza tecnologica e agricola avanzata, e i Paesi firmatari hanno colto
l’opportunità di stringere partnership commerciali e investimenti congiunti in
settori come l’energia, l’innovazione digitale, l’agricoltura sostenibile e la
difesa. Questo cambio di paradigma aiuta a comprendere perché molti governi
arabi, pur esprimendo solidarietà ai palestinesi, evitino gesti concreti di
rottura con Israele, preferendo conservare i vantaggi ottenuti dalla
normalizzazione e preservare la propria stabilità interna. La leadership
palestinese ha condannato gli Accordi di Abramo come un tradimento,
accusando i Paesi firmatari di aver normalizzato i rapporti con Israele senza
ottenere alcuna garanzia per i diritti dei palestinesi. In effetti, tali
accordi non includevano clausole vincolanti in proposito, né impegni chiari a
favore di una soluzione negoziata. Questo ha avuto un duplice effetto:
l’indebolimento della posizione palestinese a livello diplomatico, poiché
Israele ha dimostrato di poter ottenere relazioni con il mondo arabo senza
dover fare concessioni sostanziali; e un crescente senso di isolamento tra i
palestinesi, che vedono affievolirsi il sostegno arabo storico e temono un
disinteresse crescente da parte delle capitali regionali. In questo contesto,
la possibilità di una rottura con Israele o di un sostegno diretto a Hamas, attore
instabile e vicino all’Iran, viene evitata per non compromettere delicati
equilibri regionali e i rapporti strategici con gli Stati Uniti. Un sostegno
diretto al movimento rischierebbe quindi
di apparire come una concessione all’influenza iraniana, cosa che monarchie
come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi vogliono assolutamente evitare. A ciò
si aggiunge la divisione interna tra Hamas e Fatah, che contribuisce a
indebolire la legittimità politica della causa agli occhi dei governi arabi,
frustrati dall’incapacità dei leader palestinesi di presentare una posizione
unitaria e credibile. Nonostante la cautela molti governi arabi hanno
rilasciato dichiarazioni ufficiali di condanna o appelli al cessate il fuoco,
pur evitando misure concrete di rottura diplomatica o militare. Riad ha accolto
con favore la tregua raggiunta a Gaza nel gennaio 2025, sottolineando la
necessità di affrontare le cause profonde del conflitto e ribadendo il
proprio sostegno alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est
come capitale. Il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, ha
insistito sul fatto che la stabilità in Medio Oriente passa solo attraverso
una soluzione politica giusta. Gli Emirati Arabi Uniti, pur avendo normalizzato
le relazioni con Israele, continuano a dichiarare il proprio sostegno alla
causa palestinese. Il 5 febbraio 2025 il Ministero degli Esteri ha riaffermato
l’immutata posizione storica degli Emirati in favore della soluzione dei due
Stati. Due dei principali attori nella mediazione diplomatica, l’Egitto e il
Qatar, hanno giocato ruoli chiave nei negoziati per la tregua, ospitando round
di colloqui tra rappresentanti israeliani, palestinesi e mediatori
internazionali. Il Cairo, in particolare, ha cercato di bilanciare l’assistenza
umanitaria con la pressione su Hamas affinché mantenesse una posizione
negoziabile. Il 27 gennaio 2025 la Lega Araba ha condannato con forza ogni
tentativo di spostamento forzato della popolazione palestinese da Gaza. Nei
mesi successivi ha promosso un piano in tre fasi per la ricostruzione della
Striscia, chiedendo fondi internazionali durante un summit tenutosi a Baghdad
nel maggio 2025. Dietro l’apparente passività si celano anche timori legati
alla stabilità interna. In molti Paesi arabi – spesso governati da regimi
autoritari – la mobilitazione propalestinese può trasformarsi in uno spazio per
contestare anche le politiche interne. Governi come quelli di Egitto, Giordania
o Marocco sono particolarmente attenti a mantenere il controllo sociale,
evitando che le manifestazioni popolari degenerino o si allarghino ad altre
rivendicazioni. Inoltre, vi è il timore che un forte sostegno a Hamas possa
rafforzare movimenti islamisti interni, come i Fratelli Musulmani, visti come minaccia
esistenziale da diversi governi della regione. La distanza tra le aspettative
popolari e le strategie governative è uno dei tratti distintivi dell’attuale
momento. Mentre le piazze arabe chiedono giustizia, i governi si muovono con
estrema cautela per non compromettere le loro relazioni con attori cruciali
come Stati Uniti, Israele o le potenze economiche occidentali. Le dichiarazioni
ufficiali restano dunque un gioco diplomatico: condanne pubbliche, appelli alla
pace e alla “soluzione a due Stati” si alternano a una sostanziale inattività
sul piano concreto. L’unica eccezione significativa rimane l’impegno umanitario
e le iniziative di mediazione da parte di Egitto e Qatar. In estrema sintesi l’attuale
conflitto israelo-palestinese ha riportato sotto i riflettori la questione
palestinese, ma ha anche rivelato un nuovo equilibrio di potere nel mondo
arabo. La solidarietà politica incondizionata che un tempo univa il blocco
arabo si è trasformata in una diplomazia prudente, attenta a proteggere gli interessi
nazionali, le alleanze strategiche e la stabilità interna. I leader arabi
camminano su un filo sottile: da un lato il dovere morale e simbolico di
sostenere la causa palestinese; dall’altro, la necessità politica di non
compromettere relazioni internazionali ormai vitali. In questo spazio di
ambiguità si gioca oggi il destino del sostegno arabo alla Palestina.
Roberto Rapaccini