RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

martedì 8 luglio 2025

LA PALESTINA, LA CAUTELA DEI PAESI ARABI TRA SOLIDARIETÀ SIMBOLICA E REALPOLITIK (2025)


Mentre il conflitto a Gaza continua a scuotere le coscienze globali e le immagini di devastazione rimbalzano sui media di tutto il mondo, l’atteggiamento dei governi arabi verso la causa palestinese appare oggi più prudente e sfumato rispetto al passato. A fronte di un diffuso sentimento di solidarietà popolare nei confronti dei palestinesi, le reazioni ufficiali dei governi arabi si limitano spesso a dichiarazioni di principio e a gesti diplomatici contenuti. Per comprendere questa apparente discrepanza, è necessario esaminare le dinamiche geopolitiche, economiche e strategiche che influenzano le scelte dei leader della regione. Un tempo considerata la causa comune del mondo arabo, la questione palestinese non occupa più lo stesso spazio prioritario nelle agende politiche dei governi regionali. Un primo segnale tangibile di questo cambiamento di approccio è arrivato con la firma degli Accordi di Abramo nel 2020. Questi accordi hanno sancito la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e quattro Paesi arabi: Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Storicamente, la maggior parte degli Stati arabi si era rifiutata di riconoscere Israele finché non fosse stata raggiunta una soluzione giusta e definitiva alla questione palestinese. Questo principio era sancito dalla cosiddetta iniziativa di Pace Araba del 2002, promossa dall’Arabia Saudita, che subordinava la normalizzazione dei rapporti con Israele al ritiro dai territori occupati e alla creazione di uno Stato palestinese. Gli Accordi di Abramo hanno rotto questa linea. Per la prima volta alcuni Stati arabi hanno deciso di disancorare il proprio interesse nazionale dalla causa palestinese, firmando intese bilaterali con Israele in cambio di vantaggi economici, tecnologici e strategici. I motivi di questa svolta sono molteplici. Innanzitutto, la sicurezza regionale: l’Iran è percepito come una minaccia comune da Israele e da molte monarchie del Golfo. La cooperazione in ambito militare e d’intelligence con Israele è vista come una garanzia contro l’espansionismo iraniano. A ciò si aggiungono importanti interessi economici: Israele è una potenza tecnologica e agricola avanzata, e i Paesi firmatari hanno colto l’opportunità di stringere partnership commerciali e investimenti congiunti in settori come l’energia, l’innovazione digitale, l’agricoltura sostenibile e la difesa. Questo cambio di paradigma aiuta a comprendere perché molti governi arabi, pur esprimendo solidarietà ai palestinesi, evitino gesti concreti di rottura con Israele, preferendo conservare i vantaggi ottenuti dalla normalizzazione e preservare la propria stabilità interna. La leadership palestinese ha condannato gli Accordi di Abramo come un tradimento, accusando i Paesi firmatari di aver normalizzato i rapporti con Israele senza ottenere alcuna garanzia per i diritti dei palestinesi. In effetti, tali accordi non includevano clausole vincolanti in proposito, né impegni chiari a favore di una soluzione negoziata. Questo ha avuto un duplice effetto: l’indebolimento della posizione palestinese a livello diplomatico, poiché Israele ha dimostrato di poter ottenere relazioni con il mondo arabo senza dover fare concessioni sostanziali; e un crescente senso di isolamento tra i palestinesi, che vedono affievolirsi il sostegno arabo storico e temono un disinteresse crescente da parte delle capitali regionali. In questo contesto, la possibilità di una rottura con Israele o di un sostegno diretto a Hamas, attore instabile e vicino all’Iran, viene evitata per non compromettere delicati equilibri regionali e i rapporti strategici con gli Stati Uniti. Un sostegno diretto al movimento  rischierebbe quindi di apparire come una concessione all’influenza iraniana, cosa che monarchie come l’Arabia Saudita o gli Emirati Arabi vogliono assolutamente evitare. A ciò si aggiunge la divisione interna tra Hamas e Fatah, che contribuisce a indebolire la legittimità politica della causa agli occhi dei governi arabi, frustrati dall’incapacità dei leader palestinesi di presentare una posizione unitaria e credibile. Nonostante la cautela molti governi arabi hanno rilasciato dichiarazioni ufficiali di condanna o appelli al cessate il fuoco, pur evitando misure concrete di rottura diplomatica o militare. Riad ha accolto con favore la tregua raggiunta a Gaza nel gennaio 2025, sottolineando la necessità di affrontare le cause profonde del conflitto e ribadendo il proprio sostegno alla creazione di uno Stato palestinese con Gerusalemme Est come capitale. Il ministro degli Esteri saudita, Faisal bin Farhan, ha insistito sul fatto che la stabilità in Medio Oriente passa solo attraverso una soluzione politica giusta. Gli Emirati Arabi Uniti, pur avendo normalizzato le relazioni con Israele, continuano a dichiarare il proprio sostegno alla causa palestinese. Il 5 febbraio 2025 il Ministero degli Esteri ha riaffermato l’immutata posizione storica degli Emirati in favore della soluzione dei due Stati. Due dei principali attori nella mediazione diplomatica, l’Egitto e il Qatar, hanno giocato ruoli chiave nei negoziati per la tregua, ospitando round di colloqui tra rappresentanti israeliani, palestinesi e mediatori internazionali. Il Cairo, in particolare, ha cercato di bilanciare l’assistenza umanitaria con la pressione su Hamas affinché mantenesse una posizione negoziabile. Il 27 gennaio 2025 la Lega Araba ha condannato con forza ogni tentativo di spostamento forzato della popolazione palestinese da Gaza. Nei mesi successivi ha promosso un piano in tre fasi per la ricostruzione della Striscia, chiedendo fondi internazionali durante un summit tenutosi a Baghdad nel maggio 2025. Dietro l’apparente passività si celano anche timori legati alla stabilità interna. In molti Paesi arabi – spesso governati da regimi autoritari – la mobilitazione propalestinese può trasformarsi in uno spazio per contestare anche le politiche interne. Governi come quelli di Egitto, Giordania o Marocco sono particolarmente attenti a mantenere il controllo sociale, evitando che le manifestazioni popolari degenerino o si allarghino ad altre rivendicazioni. Inoltre, vi è il timore che un forte sostegno a Hamas possa rafforzare movimenti islamisti interni, come i Fratelli Musulmani, visti come minaccia esistenziale da diversi governi della regione. La distanza tra le aspettative popolari e le strategie governative è uno dei tratti distintivi dell’attuale momento. Mentre le piazze arabe chiedono giustizia, i governi si muovono con estrema cautela per non compromettere le loro relazioni con attori cruciali come Stati Uniti, Israele o le potenze economiche occidentali. Le dichiarazioni ufficiali restano dunque un gioco diplomatico: condanne pubbliche, appelli alla pace e alla “soluzione a due Stati” si alternano a una sostanziale inattività sul piano concreto. L’unica eccezione significativa rimane l’impegno umanitario e le iniziative di mediazione da parte di Egitto e Qatar. In estrema sintesi l’attuale conflitto israelo-palestinese ha riportato sotto i riflettori la questione palestinese, ma ha anche rivelato un nuovo equilibrio di potere nel mondo arabo. La solidarietà politica incondizionata che un tempo univa il blocco arabo si è trasformata in una diplomazia prudente, attenta a proteggere gli interessi nazionali, le alleanze strategiche e la stabilità interna. I leader arabi camminano su un filo sottile: da un lato il dovere morale e simbolico di sostenere la causa palestinese; dall’altro, la necessità politica di non compromettere relazioni internazionali ormai vitali. In questo spazio di ambiguità si gioca oggi il destino del sostegno arabo alla Palestina.

Roberto Rapaccini