RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

giovedì 10 luglio 2025

GLOBALIZZAZIONE AL CAPOLINEA, È IL COMMERCIO L’ARMA IN MANO ALLA NUOVA GEOPOLITICA? (2025)



Con il secondo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca la politica commerciale degli Stati Uniti ha imboccato con maggiore decisione la strada del protezionismo. Rispetto alla prima presidenza, oggi si assiste ad una radicalizzazione. Le tariffe non sono più solo strumenti per negoziare da posizioni di forza: diventano l’espressione coerente di una visione del mondo basata sull’autonomia strategica, sulla deterrenza economica e su una profonda riconfigurazione delle alleanze globali. Uno dei primi atti significativi di questo nuovo corso è stato l’ampliamento della cosiddetta ‘tariffa nazionale’: un’imposta generalizzata sulle importazioni, presentata come misura a difesa dell’industria e dei posti di lavoro americani. Ma questa manovra va oltre la dimensione economica: rappresenta un terremoto geopolitico che mette in discussione gli equilibri consolidati. Non si tratta di un semplice provvedimento tecnico, bensì di una dichiarazione di principio. La nuova linea economica americana riafferma la centralità dello Stato-nazione, subordinando le dinamiche del mercato internazionale alle esigenze di sicurezza interna. L’interdipendenza commerciale, a lungo considerata un pilastro della stabilità globale, viene ora percepita come una vulnerabilità da cui liberarsi. Il messaggio politico è chiaro: gli Stati Uniti non intendono più svolgere il ruolo di garanti del libero scambio, ma si propongono come difensori dei propri confini economici. La nuova tariffa colpisce in modo trasversale, senza distinzione tra alleati e concorrenti, rafforzando l’idea di un’economia nazionale autosufficiente, sempre meno legata ai vincoli del multilateralismo. Le conseguenze di questa strategia sono profonde. Si incrinano le fondamenta dell’ordine economico internazionale costruito nel dopoguerra, che si basava sulla cooperazione e sul rispetto di regole condivise. Al loro posto si afferma una logica di confronto permanente in cui le grandi potenze agiscono unilateralmente, spesso a danno della stabilità comune. I partner commerciali degli Stati Uniti si trovano davanti a un bivio: accettare regole imposte senza consultazione oppure reagire con misure simmetriche, alimentando una spirale di ritorsioni. In Europa e in Asia cresce la percezione di un’aggressione economica e, con essa, la necessità di rafforzare l’autonomia strategica, diversificare le fonti di approvvigionamento, costruire nuove alleanze regionali difensive. Il rischio è una crescente frammentazione dell’economia in blocchi antagonisti. Anche i Paesi in via di sviluppo subiscono le conseguenze di questo mutamento. Per molte economie emergenti l’accesso al mercato statunitense era un canale decisivo per la crescita industriale. Oggi quell’accesso è incerto, subordinato a valutazioni geopolitiche più che a regole trasparenti. Ne deriva un sistema commerciale instabile. La tariffa nazionale non è solo uno strumento economico, ma un atto politico che ridefinisce il rapporto tra mercato e potere. Segna il passaggio da un ordine regolato e pluralista a uno dominato dalla forza. La Cina torna ad essere il principale bersaglio. L’inasprimento delle tariffe su settori strategici, come semiconduttori, veicoli elettrici, tecnologie emergenti, conferma che la rivalità tra Washington e Pechino non è più limitata all’ambito economico, ma ha assunto una dimensione sistemica. Più che un conflitto commerciale  si tratta ormai di una vera e propria guerra fredda economica, in cui la tecnologia è la principale arma e le catene di approvvigionamento il teatro dello scontro. Le imprese americane sono incoraggiate a riportare la produzione in patria o a rifornirsi da partner affidabili, mentre Pechino accelera la costruzione di un’economia più autonoma e meno esposta al dominio del dollaro. I nuovi dazi su acciaio, auto elettriche e prodotti agroalimentari colpiscono anche contesti chiave dell’economia europea. Bruxelles, divisa tra la necessità di reagire e il timore di innescare una  escalation commerciale, si trova in una posizione di crescente fragilità. L’Unione Europea è chiamata a scegliere se adattarsi a questo ordine fondato sulla forza oppure accelerare un processo di integrazione interna e rafforzare i rapporti con altri attori. Intanto, il commercio mondiale smette di essere un terreno neutrale e si trasforma in un campo minato. Emergono alleanze economiche fluide e regionali: l’Asia si consolida intorno alla Cina e all’accordo RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership); l’America Latina guarda alle aperture cinesi; l’Africa diventa il nuovo spazio di competizione per capitali, risorse e influenza. L’amministrazione Trump, invece, adotta una logica di blocchi: incentivi fiscali per chi produce in patria, sanzioni per chi delocalizza, accordi bilaterali subordinati agli interessi americani. È la fine dell’era del libero scambio globale e l’avvio di una nuova fase di regionalizzazione selettiva dell’economia. Sul piano interno alcuni settori industriali traggono beneficio da una protezione temporanea, ma l’aumento dei costi di produzione e dei prezzi al consumo è evidente. Le materie prime rincarano, così come numerosi beni importati. Il rischio è quello di alimentare l’inflazione in un contesto di crescita già rallentata. A questo si aggiunge l’incertezza normativa: la prevedibilità del sistema commerciale viene meno, le regole si piegano all’arbitrio politico e le imprese, americane e straniere, devono adattarsi a un ambiente instabile e imprevedibile. La politica dei dazi non è solo una linea economica: è un manifesto ideologico. Rifiuta il multilateralismo, mette in discussione la globalizzazione, riafferma la sovranità nazionale come principio cardine. Ma questa visione produce effetti a catena: altri Paesi stanno seguendo l’esempio americano, alimentando una corsa al protezionismo. In India, Brasile, Indonesia emergono segnali in questa direzione. L’ordine economico internazionale costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale -  fondato su apertura, cooperazione e regole comuni – è oggi profondamente eroso. Il mondo sarà in grado di ricomporre un nuovo equilibrio? Oppure ci attende una lunga fase di frammentazione e conflitto economico permanente? Gli Stati Uniti trarranno beneficio da questa chiusura o finiranno per isolarsi da un sistema che sta rapidamente cambiando direzione? Una cosa è evidente: la globalizzazione - fondata sull’integrazione, sull’apertura progressiva dei mercati e sulla centralità delle istituzioni multilaterali - è tramontata. Quel modello che prometteva prosperità con la libera circolazione di merci, capitali, persone e tecnologie, è entrato in crisi strutturale. Oggi la cooperazione internazionale lascia spazio a una logica di confronto tra blocchi. Gli Stati tornano protagonisti nel dirigere l’economia: orientano investimenti, decidono quali tecnologie sostenere o escludere, impongono criteri di sicurezza nazionale anche in ambito commerciale. Se la globalizzazione esiste ancora, è una versione profondamente diversa: non più universale, ma frammentata e selettiva. Le relazioni economiche rispondono a priorità strategiche, la fiducia tra le nazioni è ai minimi storici, e la convergenza viene sostituita dalla competizione. Il commercio diventa il teatro ibrido della nuova geopolitica: non più spazio neutro di scambio, ma terreno di scontro per la supremazia tecnologica, energetica e militare. Parlare oggi di fine della globalizzazione significa constatare la fine del suo paradigma liberale. Il futuro sarà fatto di catene più corte, accordi più ristretti, scambi più controllati. La globalizzazione non è morta, ma ha cambiato volto. E quel volto è segnato da confini, rivalità e nuove barriere.