L’attacco
israeliano a sorpresa contro l’Iran non è solo un’operazione militare mirata. È
un segnale d’allarme potentissimo, una dimostrazione di come il mondo stia
scivolando inesorabilmente verso un’epoca di instabilità crescente, nella quale
le crisi regionali non sono più isolate, ma diventano immediatamente crisi
globali. L’offensiva israeliana che ha colpito obiettivi come centri di comando
militari, scienziati nucleari e impianti di arricchimento dell’uranio, ha avuto
l’effetto di un terremoto. Ha scosso Teheran, ma anche Washington, Mosca, le
capitali europee e quelle del Golfo. Dietro l’apparenza di un'azione
unilaterale si nasconde una realtà ben più ambigua e pericolosa: il ruolo degli
Stati Uniti. L’amministrazione Trump ha reagito ufficialmente dichiarando di
non aver autorizzato l’attacco, ma le parole del Presidente – minacce di
attacchi e inviti all’Iran a fare un accordo prima che sia tardi – tradiscono
ben altro. L’ambiguità è lampante: o Trump ha perso il controllo su Netanyahu,
o ha deliberatamente lasciato fare, per poi giustificare l’operazione a
posteriori. In entrambi i casi emerge l’immagine di una leadership americana
debole, incoerente e sempre più imprevedibile. Ed è proprio questa incoerenza a
rappresentare l’aspetto più pericoloso. Gli Stati Uniti, storicamente percepiti
come l’arbitro – talvolta controverso, ma centrale – degli equilibri globali,
sembrano oggi muoversi in modo incerto, senza una visione strategica chiara. E
questo genera instabilità, perché gli attori regionali non sanno più se possono
contare sulla protezione americana o se devono agire da soli, in un vuoto di
potere crescente. Israele ha interiorizzato l’idea di poter colpire con
impunità: eliminare figure chiave, distruggere infrastrutture, cambiare gli
equilibri, senza una vera reazione internazionale. Ma perché proprio adesso? Le
motivazioni sono molteplici, e si intrecciano tra politica interna e calcoli
strategici. Benjamin Netanyahu ha evitato per un soffio un voto sfavorevole
alla Knesset. Il suo governo è assediato dalle critiche per la brutale
offensiva a Gaza, mentre le accuse di crimini di guerra si moltiplicano. Un
attacco contro un nemico esterno può servire a rinsaldare il consenso interno:
è un classico espediente di sopravvivenza politica. Il raid contro l’Iran è
anche un’operazione di propaganda, utile a distrarre l’opinione pubblica
israeliana dalle macerie morali e politiche che la guerra a Gaza ha lasciato. Colpito duramente, l’Iran ha reagito
immediatamente. Teheran ha scelto di colpire Israele con un massiccio lancio di
missili e droni. È una risposta diretta, pensata anche per salvare la faccia
agli occhi della propria opinione pubblica e del mondo sciita. Ma il rischio
resta altissimo: un confronto aperto con Israele espone l’Iran a ritorsioni
devastanti. Per questo parallelamente alla risposta militare visibile, Teheran
potrebbe ricorrere anche a rappresaglie indirette: attacchi tramite milizie
alleate in Libano, Siria o Iraq, sabotaggi e offensive cibernetiche. Teheran potrebbe
decidere di accelerare il suo programma nucleare nella convinzione che solo
l’arma atomica possa garantire una vera deterrenza. A rendere la crisi ancora
più complessa c’è l’atteggiamento della Russia. Mosca, pur avendo fermamente condannato
i raid israeliani contro l’Iran, suo alleato, ha un atteggiamento prudente. La
Russia è totalmente assorbita dalla guerra in Ucraina, che non ha ancora
prodotto risultati definitivi. Il Cremlino non ha né le risorse né l’interesse
a farsi coinvolgere in un secondo teatro di guerra. Tuttavia, non si può
escludere che veda in questa crisi un’opportunità indiretta: un’escalation in
Medio Oriente potrebbe distrarre l’Occidente dal fronte ucraino, costringere la
NATO a dividersi su più scenari, offrendo
così a Mosca un margine di respiro. Ma il vero pericolo, oltre a quello
militare, è strategico. L’attuale crisi potrebbe accelerare la formazione di un
nuovo asse geopolitico tra Iran, Russia e Cina. Non un’alleanza organica, ma
una convergenza per necessità, alimentata dall’isolamento e dalla pressione
occidentale. Teheran potrebbe cercare maggiore protezione da Mosca e Pechino,
aprendo la strada a un mondo sempre più diviso in blocchi antagonisti. Non
sarebbe una nuova Guerra Fredda, ma piuttosto una fase multipolare instabile,
dove ogni potenza cerca di massimizzare la propria influenza senza una cornice
condivisa di regole. In questo contesto anche la guerra in Ucraina non sarebbe
più un conflitto separato. L’illusione che si possano gestire le crisi in modo
isolato – Medio Oriente da una parte, Europa orientale e Asia-Pacifico dall’altra
– è ormai anacronistica. L’ordine globale sta franando sotto il peso della
simultaneità dei conflitti, delle istituzioni multilaterali paralizzate e delle
leadership politiche sempre più schiave del consenso immediato piuttosto che
della visione strategica. E infine c’è una variabile spesso trascurata ma
potenzialmente devastante: il ritorno del terrorismo jihadista come conseguenza
indiretta di questa crisi. L’ennesimo conflitto percepito come ingiusto, le
immagini di bombardamenti e morti civili, l’impunità internazionale garantita a
Israele: tutto ciò potrebbe riattivare una narrativa potente e pericolosa,
quella della guerra dell’Occidente contro l’Islam. Non si tratta
necessariamente della ricomparsa di un fronte islamico compatto, che oggi
appare improbabile per le divisioni interne tra sunniti e sciiti. Ma piuttosto
della riemersione di una galassia jihadista frammentata, che può trovare nuovo
carburante ideologico in questa escalation. Gruppi come Al-Qaeda, Isis o le
loro varianti regionali, così come cellule autonome nei Balcani, in Africa, in
Asia centrale o in Europa, potrebbero sfruttare il contesto per giustificare
una nuova ondata di attentati, reclutamenti e campagne di destabilizzazione. La
percezione di un’ingiustizia sistemica, alimentata da anni di occupazione,
guerre asimmetriche e doppi standard, è un terreno fertilissimo per
l’estremismo. A differenza degli anni 2000, però, oggi questi gruppi operano in
modo decentralizzato, attraverso reti agili, spesso invisibili, che usano il
web per radicalizzare, addestrare e colpire. Se questa dinamica dovesse
innescarsi, ci troveremmo di fronte a una duplice minaccia convergente: da un
lato i conflitti interstatali tra potenze armate, dall’altro la guerra
asimmetrica portata avanti da attori non statali. Due piani che si alimentano a
vicenda, nel vuoto lasciato da una governance internazionale incapace di
prevenire, gestire o risolvere. Trump nel suo discorso inaugurale aveva
dichiarato che il suo più grande lascito sarebbe stato quello di pacificatore.
Ma la realtà racconta un’altra storia: la sua gestione confusa, contraddittoria
e improvvisata della politica estera ha creato un terreno fertile per il caos.
E oggi ci troviamo sull’orlo non solo di una guerra regionale, ma di un
collasso geopolitico globale. L’illusione che l’instabilità si possa contenere
con colpi chirurgici o atti unilaterali è pericolosa. In un mondo senza arbitri
credibili ogni mossa può generare reazioni a catena. E se gli Stati Uniti
continueranno a oscillare tra ambiguità, intimidazione e assenza di visione,
non sarà solo il Medio Oriente a esplodere. Sarà l’intero equilibrio globale a crollare.
È drammatico constatare che l’umanità non ha appreso nulla dalle precedenti
grandi tragedie correlate ai pregressi conflitti bellici mondiali. Al contrario
ogni crisi diventa il preludio della successiva. “La sola lezione della storia
è che gli uomini non hanno mai imparato nulla dalla storia.” (Friedrich Hegel)
Roberto
Rapaccini