C’è un
pensiero che da tempo mi ritorna in mente, sempre più insistente: nessuno parla
più di pace. Non solo come progetto politico concreto, ma neppure come visione,
come orizzonte morale, come possibilità storica. Le guerre si moltiplicano e
ogni giorno portano distruzione. Abbiamo perso la capacità di immaginare la
pace. Il dialogo è ormai considerato un lusso, la diplomazia un accessorio
formale. Siamo quotidianamente assediati da notizie di bombardamenti,
attentati, escalation, colpi di Stato. Ucraina, Israele, Gaza, Sudan, Yemen.
L’elenco si allunga, si aggiorna, e si normalizza. E mentre il mondo si
irrigidisce attorno a polarizzazioni, sembra che la pace sia scomparsa dalla
grammatica della politica. Eppure, una voce continua a parlarne. È quella di
Papa Leone XIV. È un capovolgimento profondo rispetto al secolo scorso: un
tempo erano i governi, le diplomazie, le organizzazioni internazionali a
invocare la pace; la Chiesa offriva solo sostegno spirituale ed etico. Oggi è
l’inverso: è il Papa a tenere accesa la fiaccola del disarmo, mentre le grandi
potenze si limitano a gestire i conflitti, a congelarli, a usarli come leve
geopolitiche. Nessuno lavora davvero per risolverli. Fin dal suo primo
intervento pubblico Papa Leone XIV ha parlato della necessità di raffreddare le
guerre, di spezzare la spirale del riarmo, di restituire centralità al diritto
internazionale come bussola morale e politica. Lo fa in un momento in cui la
guerra non è più solo un evento: è diventata il linguaggio prevalente della
politica mondiale. La guerra è la sconfitta della politica e dell’umanità,
diceva Papa Francesco. Leone XIV raccoglie e rilancia quella visione con
lucidità e fermezza. E oggi appare come l’unica voce sistematica e coerente a
favore della convivenza pacifica in un panorama globale sempre più
militarizzato. Ma il problema non è solo nei carri armati o nei missili. È più
profondo: è nella mente, nella cultura, nel nostro sguardo sul mondo. Abbiamo
smarrito la visione della pace che, pur tra mille contraddizioni, era emersa
nel dopoguerra e che vedeva nel dialogo, nella cooperazione, nel rispetto delle
regole una garanzia contro la catastrofe. Oggi spesso l’unico scenario
immaginabile è la guerra. La pace è percepita come una debolezza, un’utopia, un
fastidio per i realisti del potere. Eppure, la storia ci ha già mostrato dove
portano le avventure belliche. Il 6 e il 9 agosto 1945 — date che devono
rimanere scolpite nella coscienza collettiva — le bombe atomiche su Hiroshima e
Nagasaki hanno tracciato una soglia che non dovrà più essere oltrepassata. Non
ci sarà più un’altra guerra simile o non ci sarà più umanità, scrisse Albert
Camus. Ma quella memoria oggi non ci ammonisce più. Si è dissolta come fumo. Nel
nostro tempo nessuno sa più cosa significhi vincere una guerra. I conflitti
contemporanei non si chiudono, si moltiplicano. Come ha scritto Massimo
Cacciari, …la guerra non può essere vinta, le guerre si riproducono, le
guerre non finiscono. Anche chi vince, perde, perché il costo degli scontri
armati è la distruzione delle città, il sangue dei civili, la vita dei bambini.
È il futuro stesso che viene compromesso. Nel vuoto assordante dei discorsi
ufficiali, Papa Leone XIV emerge come una voce profetica, non mistica, ma
profondamente politica. Dice ciò che altri tacciono. Ricorda che la diplomazia
multilaterale non è un orpello, ma una condizione per la sopravvivenza del
genere umano. Non parla con ingenuità. Conosce il prezzo della pace:
compromesso, fatica, pazienza. Ma sa anche che è l’unica via razionale. In uno
dei suoi primi discorsi ha detto che non è la pace a essere un sogno, è la
guerra a essere un incubo antico travestito da modernità. E non dimentica i
bambini. “Moriranno i bambini - ha detto - come stanno già morendo”.
E ha citato Elie Wiesel, uno scrittore rumeno di origine ebraica, superstite
dell’olocausto: …anche i figli degli assassini sono bambini. È una frase
che racchiude l’ultimo baluardo contro la barbarie: riconoscere l’umanità
dell’altro, anche del nemico. L’approccio di Papa Leone XIV non è solo una voce
isolata. È una proposta culturale, politica e spirituale, che può segnare un
cambiamento di rotta, attraverso alcune alternative chiare esposte di seguito.
È necessario rimettere la pace al centro della cultura politica, non relegarla
a liturgia morale, ma trattarla come una strategia lungimirante, necessaria
alla sicurezza collettiva. Si deve promuovere una nuova educazione alla pace,
che parta dalle scuole, dalle università, dai media. Si deve recuperare la
considerazione del diritto internazionale come strumento reale e vincolante: senza
regole condivise, il mondo diventa una giungla armata. È importante dare valore
alle tregue come strumenti intelligenti, non come pause tattiche. Le tregue
aprono spazi per ascoltare, per immaginare, per negoziare. Sono porte
sull’impossibile. Nello stesso tempo si deve riabilitare il compromesso. In un
tempo in cui si esalta l’intransigenza, serve tornare a una politica della
misura e della responsabilità. La convivenza, se non pacifica, almeno non
combattuta, è già una forma di salvezza. In ultimo dobbiamo difendere la
memoria per custodire il futuro. Senza memoria di Hiroshima, di Sarajevo, di Baghdad,
di Gaza, continueremo a ripetere tutto. Senza memoria, non c’è pace: c’è solo il
ripetersi dell’errore. Papa Leone XIV ci sta ricordando che parlare di pace non
è debolezza: è coraggio. Costruirla è difficile, ma necessario. Raffreddare la
guerra è un atto rivoluzionario, non un gesto di resa. Le guerre si fanno con
le armi. La pace si fa con la parola. E in questo tempo di clamore bellico,
l’unico vero atto sovversivo è scegliere di immaginare un mondo diverso. Non
perfetto, ma possibile. Non ideale, ma umano. E forse il vero miracolo della
voce di Papa Leone XIV è proprio questo: ricordarci che abbiamo ancora una
scelta. Alla fine, la pace non è solo un sogno, una vocazione religiosa o un
imperativo etico. La pace è un atto di intelligenza storica. È la
consapevolezza che l’umanità, con i mezzi distruttivi di cui oggi dispone, non
può più permettersi l’illusione della guerra come strumento di ordine. La
guerra non ordina, ma disgrega, destabilizza, disumanizza. Non crea equilibri,
ma solo nuovi abissi. Papa Leone XIV con la forza mite delle sue parole ricorda
che immaginare la pace non è un lusso dei tempi felici, ma una responsabilità
nei tempi tragici. È in mezzo alla polvere delle macerie che serve più che mai
una visione capace di ricomporre ciò che è stato lacerato. E questo approccio
non nasce dall’ingenuità, ma da una profonda comprensione del limite, della
fragilità, della necessità del legame. Pace non significa ignorare i conflitti,
ma scegliere di affrontarli con la volontà di risolverli. Significa riconoscere
che ogni compromesso imperfetto è preferibile a una vittoria perfetta ottenuta
sul cadavere di una civiltà. Significa assumere una condizione di vigilanza e
responsabilità collettiva: la pace è l’unica battaglia che valga la pena
combattere, diceva Albert Einstein. La voce di Papa Leone XIV ci provoca, ci
scuote, ci obbliga a porci una domanda antica mai dimenticata: che cosa
vogliamo lasciare alle generazioni che verranno? Una cultura pacifica non si
costruisce in un giorno. Ma può cominciare in un attimo: nel momento in cui
decidiamo di non cedere alla fatalità della guerra, e torniamo a sognare — con
intelligenza, con prudenza, con coraggio — che un mondo giusto non è
impossibile. È solo in attesa di essere voluto. E proprio in questo atto di
volontà, fragile, minoritario, ma ostinato, inizia il miracolo politico della
pace.
Roberto
Rapaccini