Il 26 aprile 2025
c’è stato un momento in Piazza San Pietro, in cui il tempo sembrava sospeso.
Migliaia di volti, milioni di cuori, riuniti in un unico, immenso silenzio,
hanno accompagnato Papa Francesco nel suo ultimo viaggio terreno. Quel mattino
la Chiesa e il mondo hanno vissuto un evento che non è stato soltanto una
celebrazione funebre, ma un vero atto d’amore, un abbraccio universale. Le
parole pronunciate dal cardinale Giovanni Battista Re nell’omelia sono
risuonate come eco di una vita donata senza riserve. Non è un caso che sia
stato designato proprio lui a dare voce a questo saluto: il decano del Collegio
Cardinalizio Giovanni Battista Re, figura di grande esperienza e autorevolezza.
Il cardinale Re, nato in Lombardia, formatosi alla scuola della diplomazia
vaticana e poi a lungo Prefetto della Congregazione dei Vescovi, ha incarnato
per decenni un servizio discreto e fedele alla Chiesa Cattolica e al Papa. Ha inoltre
vissuto da vicino molte delle stagioni più importanti della Chiesa
contemporanea. La sua presenza sobria, la sua lunga conoscenza degli umori della
curia romana, e la sua profonda fedeltà al successore di Pietro hanno fatto di
lui il prescelto per questo compito delicato: dare voce al cordoglio e alla
riconoscenza di tutto il mondo cattolico. Nonostante il cuore fosse gravato
dalla tristezza, la certezza della vita eterna ha guidato la celebrazione,
illuminata dalla convinzione che l’esistenza non si spegne nella tomba, ma
continua nella casa del Padre. È stato un evento che ha travalicato i confini
della Chiesa Cattolica e ha abbracciato l’umanità intera. Il funerale di Papa
Francesco, infatti, ha avuto anche una portata geopolitica straordinaria. Erano
presenti tutti i grandi della terra: capi di Stato, sovrani, presidenti, leader
religiosi e delegazioni ufficiali da ogni continente. Eppure, sorprendentemente,
l’atmosfera che si respirava non era quella della diplomazia fredda o
dell’opportunismo politico. Era un clima di grazia, di rispetto profondo, di
sincera partecipazione. Non c'è stata nessuna speculazione politica, nessuna
strumentalizzazione: solo il riconoscimento silenzioso e universale della
grandezza spirituale di un uomo che aveva parlato con autorevole schiettezza e
coraggio al cuore del mondo. Il funerale si è svolto in uno scenario di una
solennità sobria, quasi francescana. Nessun trionfalismo, nessun fasto
eccessivo: solo la preghiera, il silenzio, la compostezza di migliaia di
persone che si sentivano parte di un'unica grande famiglia. L'intera cerimonia,
compatibilmente con la sua importanza, sembrava riflettere perfettamente lo
stile di Francesco, che per tutta la vita aveva chiesto una Chiesa povera per i
poveri, lontana dalle mondanità. A rendere possibile questa atmosfera
straordinaria è stata anche la notevole e consolidata professionalità degli
appartenenti alle forze dell’ordine, che hanno saputo pianificare i dispositivi
e garantire la sicurezza senza essere invasivi, proteggere senza militarizzare.
Nonostante l’altissimo rischio legato alla presenza dei principali leader
mondiali, la gestione è stata serenamente discreta, particolarmente attenta, sensibilmente
rispettosa del dolore collettivo. Roma in quel giorno ha mostrato il suo volto
migliore: una città capace di accogliere con dignità, senza tensione, senza
paura. Il cardinale Re ha ricordato l’ultima immagine di Papa Francesco: appena
pochi giorni prima, nella solennità di Pasqua, indebolito dalla malattia ma
ancora pieno di sufficiente energia positiva, aveva voluto benedire la folla
dal balcone di San Pietro, per poi scendere tra la gente. Un gesto d’amore e di
vicinanza che rimarrà scolpito nel cuore della Chiesa. Subito dopo la cerimonia
in piazza San Pietro, il corteo funebre ha attraversato le vie di Roma, in un
percorso che ha toccato luoghi simbolici della città eterna. E,
sorprendentemente, il clima che si respirava non era quello cupo del lutto, ma
quello di una grande festa popolare. Le strade erano gremite di persone che
applaudivano, sventolavano bandiere, lanciavano fiori al passaggio della salma.
Era un popolo che non voleva dire addio, ma grazie, un popolo che celebrava la
vita di chi aveva saputo incarnare l’amore di Cristo in modo autentico e
vicino. Roma quel giorno non ha pianto soltanto: ha cantato la sua gratitudine.
Il percorso si è concluso nella basilica di Santa Maria Maggiore, tanto amata
da Papa Francesco. Qui, in un clima più riservato e raccolto, si è tenuta una
seconda cerimonia, più intima. Era la chiusura perfetta per un uomo che, prima
di ogni viaggio apostolico e dopo ogni ritorno, si fermava sempre a pregare ai
piedi della Salus Populi Romani, affidando a Maria il suo servizio e la sua
gente. La basilica accoglieva ora, per l'ultima volta, il suo pellegrino più
fedele. Le preghiere sussurrate, le lacrime discrete, il silenzio carico di
amore hanno reso questo momento uno dei più intensi della giornata. L’omelia
del Cardinale Re aveva richiamato la pagina evangelica del dialogo tra Gesù e
Pietro: “Mi ami tu più di costoro?” tracciando un parallelo con la missione di
Francesco: un servizio d’amore, vissuto fino all’ultimo respiro, sulle orme del
Buon Pastore. Dalla scelta del nome – Francesco – alla forza dirompente dei
suoi gesti, tutto in lui ha parlato di un ritorno all’essenziale: la
misericordia, l’amore per i poveri, l’incontro con l’altro. È stato il Papa
delle periferie, geografiche ed esistenziali. È stato il Pontefice che non si è
limitato a parlare dei migranti, ma li ha abbracciati. È stato il Santo Padre che
non ha soltanto invocato la pace, ma ha osato andare nei luoghi dove il dolore
sembrava avere l'ultima parola, come in Iraq nel marzo del 2021, in uno dei
viaggi più coraggiosi del suo pontificato, che resterà un indelebile simbolo di
speranza. Le sue encicliche – segnatamente Laudato sì, sull’ecologia
integrale, sulla cura della casa comune, sul legame tra ambiente, giustizia
sociale ed economia, pubblicata il 24 maggio 2015, e Fratelli tutti, sulla
fraternità e l'amicizia sociale, molto influenzata dall'incontro di Abu Dhabi
del 2019 con il grande Imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, pubblicata il 3
ottobre 2020 – non sono state soltanto documenti, ma inviti a una piena conversione
del cuore. La casa comune, la fraternità universale, la custodia degli ultimi e
della Terra: questi sono i lasciti che Francesco ci affida. Nel suo pontificato
la Chiesa ha imparato a sentirsi meno palazzo e più campo da curare. Ha aperto
le sue porte non ai perfetti, ma ai feriti. E forse proprio per questo il
mondo, credente e non credente, oggi piange un uomo che non ha mai voluto porsi
al di sopra di nessuno, ma che ha scelto l’ultimo posto, come il Vangelo
insegna. Nel momento conclusivo dell’omelia, il Cardinale Re ha saputo toccare
il cuore di tutti: “Caro Papa Francesco, ora siamo noi a chiederti di pregare
per noi, per la Chiesa, per Roma, per il mondo intero”. Era come se l’intera
umanità, unita in un’unica voce, domandasse ancora una volta la sua
benedizione. Papa Francesco ci lascia il tesoro più prezioso: la testimonianza
che l’amore è più forte di tutto. E che alla fine della corsa, quello che conta
davvero non è quanto si è posseduto o comandato, ma quanto si è amato. E mentre
il suo feretro veniva accolto dalla Basilica di Santa Maria Maggiore, sotto le
volte antiche e dorate, una certezza cresceva nei cuori: non è finito il tempo
di Papa Francesco. È solo cominciata la stagione della sua eredità. Un’eredità strutturata
sulla misericordia, sull’umiltà, sul coraggio. Un’eredità che ora spetta a
ciascuno di noi custodire e far vivere ogni giorno.
Roberto Rapaccini

