RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

venerdì 21 marzo 2025

IL SUICIDIO DELLA PACE, LA VOGLIA DI GUERRA E IL FALLIMENTO DELL’ORDINE INTERNAZIONALE




Negli ultimi decenni l’illusione di un ordine internazionale fondato sulla pace e sulla cooperazione si è infranta contro la realtà del ritorno dei conflitti  armati e della ripresa delle rivalità tra le superpotenze. Su questo scenario si è recentemente soffermato un noto analista in un saggio intitolato Il suicidio della pace, che offre spunti di riflessione sull’attuale situazione internazionale, che coincide con una delle più gravi crisi dell’età contemporanea. L’argomento merita un’analisi approfondita, in grado di evidenziare non solo le scelte politiche non adeguate che hanno caratterizzato lo scenario mondiale post-Guerra Fredda, ma anche le dinamiche storiche e culturali profonde che hanno minato alle radici le fondamenta dell’ordine globale. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’Unione Sovietica, l’Occidente ha coltivato la convinzione di essere entrato in una nuova era, segnata dalla definitiva affermazione dei propri modelli politici ed economici. La celebre tesi della fine della storia, che proclamava l’assoluta vittoria della democrazia liberale e del libero mercato, suggeriva che l’umanità fosse destinata a vivere un lungo periodo di pace e di progresso condiviso. Questa visione, tuttavia, si è presto rivelata illusoria. La promessa di un mondo unificato sotto i valori dell’Occidente si è scontrata con le profonde resistenze di culture, opzioni politiche e interessi strategici che non intendevano accettare una subordinazione acritica e passiva a modelli esterni. Invece di consolidarsi come un sistema inclusivo, le democrazie occidentali hanno progressivamente realizzato un progetto egemonico, che ha garantito la supremazia geopolitica e culturale di alcune potenze con pregiudizio di altre. Dopo il 1989 le principali nazioni occidentali, in particolare gli Stati Uniti, hanno ritenuto opportuno consolidare la propria influenza attraverso un sistema di regole e standard concepiti in maniera etnocentrica e quindi in concreto in modo unilaterale. La globalizzazione economica, la liberalizzazione dei mercati e la promozione della democrazia e dei diritti dell’Uomo, pur avendo innegabilmente favorito lo sviluppo di molti Paesi, hanno anche generato disuguaglianze, instabilità e nuove forme di conflitto. L’espansione della Nato verso est, la scarsa considerazione per i modelli politici alternativi e l’interventismo militare in nome della responsabilità di proteggere hanno alimentato un clima di crescente diffidenza e ostilità. Il concetto di responsabilità di proteggere è un principio di diritto internazionale sviluppato all'inizio del XXI secolo per rispondere alle gravi violazioni dei diritti dell’uomo e ai crimini di massa, come il genocidio, i crimini di guerra e contro l'umanità, la pulizia etnica. Questo principio si basa sull'idea che la sovranità non è solo un diritto, ma anche una responsabilità. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da delitti gravi. Se uno Stato si dimostra incapace o non vuole farlo, questa responsabilità ricade sulla comunità internazionale. Nella sostanza il  principio è un punto di riferimento etico e giuridico per le politiche di prevenzione dei crimini di massa. Tornando all’assetto bipolare che di fatto si andava strutturando, la Russia, la Cina e altre potenze regionali hanno interpretato le politiche occidentali come tentativi di contenimento e accerchiamento strategico, volti a limitare la loro autonomia e a marginalizzarle nell’arena internazionale. La reazione è stata esplicitamente ostile: le potenze emergenti hanno adottato strategie sempre più assertive, talvolta apertamente conflittuali, nella ferma volontà di sostenere la propria sovranità e il proprio ruolo nel sistema globale. Pertanto, contrariamente alle aspettative diffuse negli anni Novanta, l’era post-Guerra Fredda è stata segnata da una proliferazione di conflitti armati, guerre civili, interventi militari unilaterali e atti di terrorismo internazionale. Le tensioni derivanti dall’integrazione globale in termini di radicalizzazione multipolare e dalle asimmetrie che essa ha generato si sono spesso trasformate in scontri violenti. I conflitti nei Balcani, l’invasione dell’Iraq nel 2003, l’intervento in Libia nel 2011, la guerra civile siriana e, più di recente, l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, rappresentano manifestazioni drammatiche di una promessa mancata: quella di una rete mondiale pacifica e cooperativa. A questo scenario si aggiunge il ritorno preoccupante della logica di potenza. Dopo una fase in cui sembrava prevalere la cooperazione transnazionale, le grandi potenze sono tornate a confrontarsi attraverso una inevitabile competizione strategica, riproponendo dinamiche proprie delle epoche passate. La guerra in Ucraina ha rappresentato una frattura definitiva, decretando la fine delle illusioni su un modello internazionale fondato su regole condivise e sul primato del diritto rispetto alla forza. Le istituzioni della ‘governance’ globale – dalle Nazioni Unite al Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale all’Organizzazione Mondiale del Commercio – appaiono oggi impotenti di fronte a un mondo frammentato e multipolare. La crescente divisione tra l’Occidente e il resto del mondo ha minato la legittimità e l’efficacia degli organismi intergovernativi, rendendo sempre più difficile affrontare le sfide globali, dai conflitti armati alle emergenze umanitarie, dalle crisi economiche al cambiamento climatico. Il suicidio della pace non è dunque il risultato di un destino ineluttabile, ma il prodotto di scelte miopi, di una visione geopolitica ristretta e della mancata comprensione delle dinamiche profonde che stavano interessando il sistema internazionale. L’Occidente ha avuto l’opportunità storica di costruire un assetto realmente inclusivo e cooperativo, ma ha preferito perseguire un modello dominante che ha esasperato le divisioni e le rivalità globali. Oggi raccogliamo i frutti amari di quella visione poco lungimirante. Il fallimento dell’ordine internazionale rappresenta un severo monito per il futuro. Senza un riconoscimento sincero del pluralismo politico, culturale ed economico che caratterizza il mondo contemporaneo, e senza un radicale ripensamento delle logiche di dominio, la pace continuerà ad essere un obiettivo irraggiungibile. La vera sfida è quella di abbandonare le logiche di contrapposizione, di superare l’unilateralismo e di promuovere un nuovo equilibrio tra le potenze, basato su regole condivise, sul rispetto reciproco e sulla gestione negoziata dei conflitti. La pace, se vuole tornare ad essere un traguardo realistico, non può più essere intesa come il semplice trionfo di un modello sull’altro. Essa deve fondarsi su una cooperazione autentica, su un dialogo paritario e sulla consapevolezza che nessuna nazione, per quanto potente, può imporre un contesto stabile senza il consenso e la partecipazione degli altri attori globali. L’alternativa è un mondo frammentato, dominato da conflitti endemici e da un disordine permanente. Ripensare l’ordine internazionale richiede coraggio e responsabilità. Non bastano i compromessi tattici, né le alleanze contingenti. Serve una nuova architettura che riconosca i limiti della potenza e affermi il primato della cooperazione sul confronto, della giustizia sull’interesse, della solidarietà sulla competizione. Lo storico greco Erodoto più di due millenni  fa ammoniva: “In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli”. È necessario evitare che il suicidio della pace si trasformi in una condanna definitiva, anche di questo tipo, per le generazioni future. Roberto Rapaccini