Negli ultimi
decenni l’illusione di un ordine internazionale fondato sulla pace e sulla
cooperazione si è infranta contro la realtà del ritorno dei conflitti armati e della ripresa delle rivalità tra le
superpotenze. Su questo scenario si è recentemente soffermato un noto analista in
un saggio intitolato Il suicidio della pace, che offre spunti di
riflessione sull’attuale situazione internazionale, che coincide con una delle
più gravi crisi dell’età contemporanea. L’argomento merita un’analisi
approfondita, in grado di evidenziare non solo le scelte politiche non adeguate
che hanno caratterizzato lo scenario mondiale post-Guerra Fredda, ma anche le
dinamiche storiche e culturali profonde che hanno minato alle radici le
fondamenta dell’ordine globale. Dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo
dell’Unione Sovietica, l’Occidente ha coltivato la convinzione di essere
entrato in una nuova era, segnata dalla definitiva affermazione dei propri
modelli politici ed economici. La celebre tesi della fine della storia, che proclamava
l’assoluta vittoria della democrazia liberale e del libero mercato, suggeriva
che l’umanità fosse destinata a vivere un lungo periodo di pace e di progresso
condiviso. Questa visione, tuttavia, si è presto rivelata illusoria. La
promessa di un mondo unificato sotto i valori dell’Occidente si è scontrata con
le profonde resistenze di culture, opzioni politiche e interessi strategici che
non intendevano accettare una subordinazione acritica e passiva a modelli
esterni. Invece di consolidarsi come un sistema inclusivo, le democrazie
occidentali hanno progressivamente realizzato un progetto egemonico, che ha
garantito la supremazia geopolitica e culturale di alcune potenze con
pregiudizio di altre. Dopo il 1989 le principali nazioni occidentali, in
particolare gli Stati Uniti, hanno ritenuto opportuno consolidare la propria
influenza attraverso un sistema di regole e standard concepiti in maniera
etnocentrica e quindi in concreto in modo unilaterale. La globalizzazione
economica, la liberalizzazione dei mercati e la promozione della democrazia e
dei diritti dell’Uomo, pur avendo innegabilmente favorito lo sviluppo di molti
Paesi, hanno anche generato disuguaglianze, instabilità e nuove forme di
conflitto. L’espansione della Nato verso est, la scarsa considerazione per i
modelli politici alternativi e l’interventismo militare in nome della
responsabilità di proteggere hanno alimentato un clima di crescente diffidenza
e ostilità. Il concetto di responsabilità di proteggere è un principio di
diritto internazionale sviluppato all'inizio del XXI secolo per rispondere alle
gravi violazioni dei diritti dell’uomo e ai crimini di massa, come il
genocidio, i crimini di guerra e contro l'umanità, la pulizia etnica. Questo
principio si basa sull'idea che la sovranità non è solo un diritto, ma anche
una responsabilità. Ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria
popolazione da delitti gravi. Se uno Stato si dimostra incapace o non vuole
farlo, questa responsabilità ricade sulla comunità internazionale. Nella
sostanza il principio è un punto di
riferimento etico e giuridico per le politiche di prevenzione dei crimini di
massa. Tornando all’assetto bipolare che di fatto si andava strutturando, la
Russia, la Cina e altre potenze regionali hanno interpretato le politiche occidentali
come tentativi di contenimento e accerchiamento strategico, volti a limitare la
loro autonomia e a marginalizzarle nell’arena internazionale. La reazione è
stata esplicitamente ostile: le potenze emergenti hanno adottato strategie
sempre più assertive, talvolta apertamente conflittuali, nella ferma volontà di
sostenere la propria sovranità e il proprio ruolo nel sistema globale. Pertanto,
contrariamente alle aspettative diffuse negli anni Novanta, l’era post-Guerra
Fredda è stata segnata da una proliferazione di conflitti armati, guerre
civili, interventi militari unilaterali e atti di terrorismo internazionale. Le
tensioni derivanti dall’integrazione globale in termini di radicalizzazione
multipolare e dalle asimmetrie che essa ha generato si sono spesso trasformate
in scontri violenti. I conflitti nei Balcani, l’invasione dell’Iraq nel 2003,
l’intervento in Libia nel 2011, la guerra civile siriana e, più di recente,
l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022, rappresentano manifestazioni
drammatiche di una promessa mancata: quella di una rete mondiale pacifica e
cooperativa. A questo scenario si aggiunge il ritorno preoccupante della logica
di potenza. Dopo una fase in cui sembrava prevalere la cooperazione transnazionale,
le grandi potenze sono tornate a confrontarsi attraverso una inevitabile
competizione strategica, riproponendo dinamiche proprie delle epoche passate.
La guerra in Ucraina ha rappresentato una frattura definitiva, decretando la
fine delle illusioni su un modello internazionale fondato su regole condivise e
sul primato del diritto rispetto alla forza. Le istituzioni della ‘governance’
globale – dalle Nazioni Unite al Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca
Mondiale all’Organizzazione Mondiale del Commercio – appaiono oggi impotenti di
fronte a un mondo frammentato e multipolare. La crescente divisione tra
l’Occidente e il resto del mondo ha minato la legittimità e l’efficacia degli
organismi intergovernativi, rendendo sempre più difficile affrontare le sfide
globali, dai conflitti armati alle emergenze umanitarie, dalle crisi economiche
al cambiamento climatico. Il suicidio della pace non è dunque il risultato di
un destino ineluttabile, ma il prodotto di scelte miopi, di una visione
geopolitica ristretta e della mancata comprensione delle dinamiche profonde che
stavano interessando il sistema internazionale. L’Occidente ha avuto
l’opportunità storica di costruire un assetto realmente inclusivo e
cooperativo, ma ha preferito perseguire un modello dominante che ha esasperato
le divisioni e le rivalità globali. Oggi raccogliamo i frutti amari di quella
visione poco lungimirante. Il fallimento dell’ordine internazionale rappresenta
un severo monito per il futuro. Senza un riconoscimento sincero del pluralismo
politico, culturale ed economico che caratterizza il mondo contemporaneo, e
senza un radicale ripensamento delle logiche di dominio, la pace continuerà ad
essere un obiettivo irraggiungibile. La vera sfida è quella di abbandonare le
logiche di contrapposizione, di superare l’unilateralismo e di promuovere un
nuovo equilibrio tra le potenze, basato su regole condivise, sul rispetto
reciproco e sulla gestione negoziata dei conflitti. La pace, se vuole tornare
ad essere un traguardo realistico, non può più essere intesa come il semplice
trionfo di un modello sull’altro. Essa deve fondarsi su una cooperazione
autentica, su un dialogo paritario e sulla consapevolezza che nessuna nazione,
per quanto potente, può imporre un contesto stabile senza il consenso e la
partecipazione degli altri attori globali. L’alternativa è un mondo
frammentato, dominato da conflitti endemici e da un disordine permanente. Ripensare
l’ordine internazionale richiede coraggio e responsabilità. Non bastano i
compromessi tattici, né le alleanze contingenti. Serve una nuova architettura
che riconosca i limiti della potenza e affermi il primato della cooperazione
sul confronto, della giustizia sull’interesse, della solidarietà sulla
competizione. Lo storico greco Erodoto più di due millenni fa ammoniva: “In pace i figli seppelliscono i
padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli”. È necessario evitare
che il suicidio della pace si trasformi in una condanna definitiva, anche di
questo tipo, per le generazioni future. Roberto Rapaccini