RASSEGNA STAMPA S.

RASSEGNA STAMPA S.
Clicca sull'immagine
• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

mercoledì 19 marzo 2025

FINE DELLA TREGUA TRA ISRAELE E HAMAS: ESCALATION MILITARE E PROSPETTIVE INCERTE (2025)




La tregua tra Israele e Hamas, in vigore dal 19 gennaio 2025, è terminata bruscamente nelle ultime ore, portando a una ripresa delle ostilità nella Striscia di Gaza. La fine del cessate il fuoco è stata attribuita al rifiuto di Hamas di liberare ulteriori ostaggi israeliani, nonostante le pressioni internazionali e le proposte di mediazione. ​In risposta l'esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi aerei su obiettivi strategici nella Striscia di Gaza, segnando l'operazione militare più intensa dalla fine del conflitto precedente. Fonti locali riferiscono che almeno 330 palestinesi sono stati uccisi e oltre 400 feriti. ​Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato che i bombardamenti continueranno fino al rilascio di tutti gli ostaggi e alla neutralizzazione delle capacità offensive di Hamas. Ha inoltre sottolineato che Israele non tollererà ulteriori minacce alla sicurezza dei suoi cittadini. ​Dopo la rottura della tregua tra Israele e Hamas, lo scenario che si apre è complesso, carico di incertezze e dominato da una drammatica escalation militare. La fine del cessate il fuoco ha segnato il ritorno a un conflitto aperto e violento, il cui sviluppo nei prossimi giorni e settimane potrebbe determinare conseguenze profonde, tanto per la popolazione civile quanto per la stabilità della regione. Le operazioni aeree israeliane sembrano preludere a un nuovo assedio. Le dichiarazioni del governo israeliano, che annunciano l’intenzione di aumentare la pressione militare contro Hamas, lasciano presagire un’imminente offensiva terrestre. Se questa ipotesi si concretizzasse, ci troveremmo di fronte a un conflitto su larga scala, forse più devastante di quello vissuto nell’autunno del 2024. Come già detto, Israele punta dichiaratamente a smantellare l’apparato militare di Hamas, un obiettivo che tuttavia si è già dimostrato difficile da raggiungere in passato, con costi umani altissimi e conseguenze devastanti per la popolazione civile. La Striscia di Gaza rischia di essere teatro di una catastrofe umanitaria senza precedenti: il sistema sanitario è già al collasso, gli aiuti umanitari non riescono a superare i blocchi, e la popolazione, stretta nella morsa di bombardamenti e fame, si trova in condizioni di disperazione assoluta. Un ulteriore rischio è quello di una guerra di logoramento. Anche nel caso in cui Hamas subisse perdite significative, è improbabile che il movimento venga annientato completamente. Al contrario Hamas ha già dimostrato in passato la capacità di rigenerarsi anche in condizioni di estrema difficoltà grazie all’appoggio di altre forze della resistenza islamica, come Hezbollah in Libano e la Jihad Islamica Palestinese. In questo scenario Israele potrebbe ritrovarsi intrappolato in un conflitto senza fine, dove ogni vittoria militare viene rapidamente neutralizzata da nuove ondate di resistenza armata. La prospettiva è quella di un effetto “Vietnam”: una guerra che consuma risorse, logora la società israeliana, isola politicamente il Paese a livello internazionale. Le ripercussioni potrebbero estendersi oltre i confini di Gaza. Hezbollah ha già minacciato ritorsioni in caso di ulteriore escalation, mentre un secondo fronte sul confine settentrionale israeliano con il Libano aprirebbe un nuovo e pericoloso capitolo. L’Iran, tradizionale sponsor sia di Hamas che di Hezbollah, osserva la situazione con attenzione. Un eventuale coinvolgimento iraniano, diretto o indiretto, potrebbe spingere l’intero Medio Oriente verso un’escalation regionale, coinvolgendo potenze esterne e aggravando l’instabilità dell’area. Nel frattempo, la crisi politica interna in Israele si acuisce. Benjamin Netanyahu sembra determinato a proseguire la strada del conflitto, spinto non solo da considerazioni strategiche ma anche da esigenze di sopravvivenza politica. Sotto accusa per la gestione fallimentare della questione degli ostaggi e per le tensioni interne con i vertici della sicurezza – come dimostrato dal siluramento del capo dello Shin Bet –, il primo ministro israeliano utilizza la retorica della sicurezza nazionale per mantenere coesa una coalizione di governo ormai fragile. L’opinione pubblica israeliana appare divisa: da un lato il desiderio di sicurezza spinge una parte della popolazione a sostenere l’escalation militare; dall’altro cresce la protesta di chi teme che la sorte degli ostaggi venga sacrificata sull’altare delle esigenze politiche di Netanyahu. Gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas rappresentano la variabile decisiva di questa fase. Se il movimento islamista dovesse dare seguito alle minacce di esecuzione, Israele potrebbe reagire con una violenza ancora maggiore, accelerando la distruzione di Gaza. Tuttavia, le famiglie dei prigionieri, unite in un movimento di protesta sempre più visibile, spingono per una ripresa dei negoziati, nel tentativo di salvare chi è ancora vivo. La pressione interna rischia di acuire la crisi politica israeliana, specialmente se Netanyahu continuerà a ignorare le richieste dei familiari. La comunità internazionale, dal canto suo, appare impotente. Gli Stati Uniti restano l’attore chiave, ma oscillano tra il tradizionale sostegno incondizionato a Israele e la necessità di evitare un disastro umanitario che comprometterebbe la loro influenza nella regione. Qatar ed Egitto proseguono nei tentativi di mediazione, ma i margini di manovra sembrano sempre più ridotti. L’Europa, relegata a un ruolo marginale, si limita a richieste formali di cessate il fuoco e ad appelli umanitari senza alcuna reale capacità di incidere. Proposte, come l’invio di una forza internazionale di interposizione o l’imposizione di un cessate il fuoco monitorato, rimangono ipotesi teoriche, difficili da tradurre in azioni concrete senza il consenso delle parti in conflitto. Nel breve termine la prospettiva è quella di un’ulteriore escalation militare con il rischio che il conflitto si estenda e si radicalizzi ulteriormente. Qualsiasi ritorno al tavolo negoziale appare oggi remoto fino a quando non si verificherà un evento di rottura significativo: una crisi umanitaria insostenibile o un cambio negli equilibri politici interni, sia a Gaza che in Israele. Nel lungo termine la guerra in corso ribadisce l’assenza di una strategia politica credibile per affrontare la questione israelo-palestinese. La situazione attuale conferma che, finché non si affronteranno le radici profonde del conflitto, la regione resterà intrappolata in un ciclo infinito di violenza e distruzione. Dopo la fine della tregua e la ripresa delle ostilità a Gaza ci si chiede se Israele non si stia avviando verso quella che potrebbe essere definita una "seconda vittoria maledetta". Questa espressione potente e densa di significato riporta alla riflessione di Ahron Bregman, che nel suo libro "La vittoria maledetta" descrive gli esiti ambigui della vittoria militare israeliana nella guerra dei sei giorni del 1967. Quella vittoria, apparentemente decisiva, si trasformò in un'eredità pesante, trascinando Israele in una spirale di occupazione, violenza e isolamento politico che prosegue ancora oggi. Israele rischia di ritrovarsi, come dopo il 1967, vincitore sul campo ma sconfitto nella gestione della pace. Una vittoria maledetta perché, sebbene possa offrire una temporanea sensazione di sicurezza o vendetta, rischia di intrappolare il Paese in un ciclo di occupazione, violenza e isolamento. Senza un piano serio per affrontare la questione palestinese in modo strutturale e giusto ogni vittoria militare continuerà ad avvelenare il futuro. Il richiamo al concetto di vittoria maledetta non è solo una suggestione storica: è un monito per chiunque guardi oltre il campo di battaglia e cerchi di immaginare il futuro della regione. Roberto Rapaccini