La tregua tra
Israele e Hamas, in vigore dal 19 gennaio 2025, è terminata bruscamente nelle
ultime ore, portando a una ripresa delle ostilità nella Striscia di Gaza. La
fine del cessate il fuoco è stata attribuita al rifiuto di Hamas di liberare
ulteriori ostaggi israeliani, nonostante le pressioni internazionali e le
proposte di mediazione. In risposta l'esercito israeliano ha lanciato una
serie di attacchi aerei su obiettivi strategici nella Striscia di Gaza,
segnando l'operazione militare più intensa dalla fine del conflitto precedente.
Fonti locali riferiscono che almeno 330 palestinesi sono stati uccisi e oltre
400 feriti. Il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha dichiarato
che i bombardamenti continueranno fino al rilascio di tutti gli ostaggi e alla
neutralizzazione delle capacità offensive di Hamas. Ha inoltre sottolineato che
Israele non tollererà ulteriori minacce alla sicurezza dei suoi cittadini. Dopo
la rottura della tregua tra Israele e Hamas, lo scenario che si apre è
complesso, carico di incertezze e dominato da una drammatica escalation
militare. La fine del cessate il fuoco ha segnato il ritorno a un conflitto
aperto e violento, il cui sviluppo nei prossimi giorni e settimane potrebbe
determinare conseguenze profonde, tanto per la popolazione civile quanto per la
stabilità della regione. Le operazioni aeree israeliane sembrano preludere a un
nuovo assedio. Le dichiarazioni del governo israeliano, che annunciano
l’intenzione di aumentare la pressione militare contro Hamas, lasciano
presagire un’imminente offensiva terrestre. Se questa ipotesi si
concretizzasse, ci troveremmo di fronte a un conflitto su larga scala, forse
più devastante di quello vissuto nell’autunno del 2024. Come già detto, Israele
punta dichiaratamente a smantellare l’apparato militare di Hamas, un obiettivo
che tuttavia si è già dimostrato difficile da raggiungere in passato, con costi
umani altissimi e conseguenze devastanti per la popolazione civile. La Striscia
di Gaza rischia di essere teatro di una catastrofe umanitaria senza precedenti:
il sistema sanitario è già al collasso, gli aiuti umanitari non riescono a
superare i blocchi, e la popolazione, stretta nella morsa di bombardamenti e
fame, si trova in condizioni di disperazione assoluta. Un ulteriore rischio è
quello di una guerra di logoramento. Anche nel caso in cui Hamas subisse
perdite significative, è improbabile che il movimento venga annientato
completamente. Al contrario Hamas ha già dimostrato in passato la capacità di
rigenerarsi anche in condizioni di estrema difficoltà grazie all’appoggio di
altre forze della resistenza islamica, come Hezbollah in Libano e la Jihad
Islamica Palestinese. In questo scenario Israele potrebbe ritrovarsi
intrappolato in un conflitto senza fine, dove ogni vittoria militare viene
rapidamente neutralizzata da nuove ondate di resistenza armata. La prospettiva
è quella di un effetto “Vietnam”: una guerra che consuma risorse, logora la
società israeliana, isola politicamente il Paese a livello internazionale. Le
ripercussioni potrebbero estendersi oltre i confini di Gaza. Hezbollah ha già
minacciato ritorsioni in caso di ulteriore escalation, mentre un secondo fronte
sul confine settentrionale israeliano con il Libano aprirebbe un nuovo e
pericoloso capitolo. L’Iran, tradizionale sponsor sia di Hamas che di
Hezbollah, osserva la situazione con attenzione. Un eventuale coinvolgimento
iraniano, diretto o indiretto, potrebbe spingere l’intero Medio Oriente verso
un’escalation regionale, coinvolgendo potenze esterne e aggravando
l’instabilità dell’area. Nel frattempo, la crisi politica interna in Israele si
acuisce. Benjamin Netanyahu sembra determinato a proseguire la strada del
conflitto, spinto non solo da considerazioni strategiche ma anche da esigenze
di sopravvivenza politica. Sotto accusa per la gestione fallimentare della
questione degli ostaggi e per le tensioni interne con i vertici della sicurezza
– come dimostrato dal siluramento del capo dello Shin Bet –, il primo ministro
israeliano utilizza la retorica della sicurezza nazionale per mantenere coesa
una coalizione di governo ormai fragile. L’opinione pubblica israeliana appare
divisa: da un lato il desiderio di sicurezza spinge una parte della popolazione
a sostenere l’escalation militare; dall’altro cresce la protesta di chi teme
che la sorte degli ostaggi venga sacrificata sull’altare delle esigenze
politiche di Netanyahu. Gli ostaggi ancora prigionieri di Hamas rappresentano
la variabile decisiva di questa fase. Se il movimento islamista dovesse dare
seguito alle minacce di esecuzione, Israele potrebbe reagire con una violenza
ancora maggiore, accelerando la distruzione di Gaza. Tuttavia, le famiglie dei
prigionieri, unite in un movimento di protesta sempre più visibile, spingono
per una ripresa dei negoziati, nel tentativo di salvare chi è ancora vivo. La
pressione interna rischia di acuire la crisi politica israeliana, specialmente
se Netanyahu continuerà a ignorare le richieste dei familiari. La comunità
internazionale, dal canto suo, appare impotente. Gli Stati Uniti restano
l’attore chiave, ma oscillano tra il tradizionale sostegno incondizionato a
Israele e la necessità di evitare un disastro umanitario che comprometterebbe
la loro influenza nella regione. Qatar ed Egitto proseguono nei tentativi di
mediazione, ma i margini di manovra sembrano sempre più ridotti. L’Europa,
relegata a un ruolo marginale, si limita a richieste formali di cessate il
fuoco e ad appelli umanitari senza alcuna reale capacità di incidere. Proposte,
come l’invio di una forza internazionale di interposizione o l’imposizione di
un cessate il fuoco monitorato, rimangono ipotesi teoriche, difficili da
tradurre in azioni concrete senza il consenso delle parti in conflitto. Nel
breve termine la prospettiva è quella di un’ulteriore escalation militare con
il rischio che il conflitto si estenda e si radicalizzi ulteriormente.
Qualsiasi ritorno al tavolo negoziale appare oggi remoto fino a quando non si
verificherà un evento di rottura significativo: una crisi umanitaria
insostenibile o un cambio negli equilibri politici interni, sia a Gaza che in
Israele. Nel lungo termine la guerra in corso ribadisce l’assenza di una
strategia politica credibile per affrontare la questione israelo-palestinese.
La situazione attuale conferma che, finché non si affronteranno le radici
profonde del conflitto, la regione resterà intrappolata in un ciclo infinito di
violenza e distruzione. Dopo la
fine della tregua e la ripresa delle ostilità a Gaza ci si chiede se Israele
non si stia avviando verso quella che potrebbe essere definita una
"seconda vittoria maledetta". Questa espressione potente e densa di
significato riporta alla riflessione di Ahron Bregman, che nel suo libro
"La vittoria maledetta" descrive gli esiti ambigui della vittoria
militare israeliana nella guerra dei sei giorni del 1967. Quella vittoria,
apparentemente decisiva, si trasformò in un'eredità pesante, trascinando
Israele in una spirale di occupazione, violenza e isolamento politico che
prosegue ancora oggi. Israele rischia di ritrovarsi, come dopo il 1967, vincitore
sul campo ma sconfitto nella gestione della pace. Una vittoria maledetta
perché, sebbene possa offrire una temporanea sensazione di sicurezza o
vendetta, rischia di intrappolare il Paese in un ciclo di occupazione, violenza
e isolamento. Senza un piano serio per affrontare la questione palestinese in
modo strutturale e giusto ogni vittoria militare continuerà ad avvelenare il
futuro. Il richiamo al concetto di vittoria maledetta non è solo una
suggestione storica: è un monito per chiunque guardi oltre il campo di
battaglia e cerchi di immaginare il futuro della regione. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
mercoledì 19 marzo 2025
FINE DELLA TREGUA TRA ISRAELE E HAMAS: ESCALATION MILITARE E PROSPETTIVE INCERTE (2025)
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