L’Arab Barometer, una
delle più grandi piattaforme di ricerca sul mondo arabo, è una sorta di "termometro sociale".
Svolge indagini su cosa pensano milioni di persone che vivono in diversi Paesi
arabi su temi importanti come la politica, l’economia, i diritti dell’uomo, la
religione. L’Arab Barometer raccoglie opinioni e dati direttamente dalle
persone attraverso sondaggi. È un progetto nato nel 2006 e si basa su un’idea
semplice ma potente: chiedere alle persone cosa pensano, facendolo in modo
scientifico; poi vengono pubblicati i relativi
risultati. I ricercatori esplorano le posizioni ideologiche di tantissime
nazioni arabe, dal Marocco alla Giordania, dall’Egitto alla Tunisia, e altre.
Il loro obiettivo è monitorare come cambiano i punti di vista nel tempo su temi
come, ad esempio, quanto le persone credono nella democrazia, che opinione
hanno sui governi locali, cosa pensano dell'uguaglianza tra uomini e donne, come
vedono il futuro economico del loro Paese. I sondaggi sono fatti in modo molto
rigoroso, quindi i risultati sono affidabili e rappresentativi della
popolazione. Questi dati sono poi usati da chi prende decisioni (come i
politici o le organizzazioni internazionali), dagli accademici e persino dai
giornalisti, per capire meglio le sfide e le speranze delle persone che vivono
nella regione araba. Un quesito emergente è come le vicende belliche a Gaza abbiano
influenzato nel mondo arabo il sostegno alla ‘soluzione dei due Stati’. Le
immagini strazianti e le notizie che sono arrivate dalla regione hanno acceso
un intenso dibattito su come risolvere il conflitto israelo-palestinese. In
proposito, Arab Barometer si è attivato per effettuare un sondaggio, dal quale
è emerso che il sostegno a una soluzione pacifica non solo rimane forte, ma sta
crescendo. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questa tragedia non ha
portato a un irrigidimento delle posizioni né a una maggiore adesione a
soluzioni radicali. I risultati dell’iniziativa sono stati pubblicati il 9
gennaio. Più dettagliatamente è stata
posta questa domanda cruciale: quale soluzione viene ritenuta più adatta per
risolvere il conflitto israelo-palestinese? Agli intervistati sono state
offerte quattro opzioni: 1. Una soluzione a due Stati, basata sui confini del
1967. 2. Un unico Stato in cui
convivano ebrei e arabi. 3. Una
confederazione tra Palestina e Israele.
4. Una soluzione alternativa, specificata dagli intervistati. I
risultati parlano chiaro: la soluzione a due Stati è quella che riscuote il
maggiore consenso nella maggior parte dei Paesi arabi. In particolare, in
Mauritania il 71% degli intervistati sostiene questa opzione; in Tunisia il 63%
si dice favorevole; in Giordania, il 61% la considera la strada migliore; in
Iraq, il 59% si schiera a favore; in Kuwait, il 54% sostiene questa soluzione. Anche
in Marocco questa scelta riscuote ampio sostegno, con il 48% degli intervistati
che la ritiene la soluzione ideale. Il Libano, invece, è l'unico Paese in cui solo
una minoranza significativa (38%) appoggia questa posizione, segno di una
maggiore frammentazione dell’opinione pubblica. Le altre possibilità, come la
creazione di un unico Stato o di una confederazione, raccolgono meno consensi.
La soluzione a un solo Stato raggiunge al massimo il 21% in Marocco e
percentuali ancora più basse altrove. La proposta di una confederazione
israelo-palestinese è ancora meno popolare, con un picco del 17% in Libano. Per
quanto riguarda le altre possibilità prospettate dagli intervistati, convergono
su due ipotesi. Alcuni propongono una soluzione militare, mentre altri
esprimono il desiderio di vedere una Palestina indipendente che inglobi
l’attuale Stato di Israele. Questa posizione è più diffusa in Kuwait (23%),
Giordania (22%) e Libano (17%), ma rimane marginale in altri Paesi. Come già
anticipato, questa ricerca mette in luce un dato fondamentale: nonostante
l’orrore della guerra e le divisioni profonde che essa ha generato, il sostegno
a una soluzione pacifica rimane radicato in gran parte della popolazione araba.
Si tratta di un elemento di grande significato, poiché dimostra la resilienza
collettiva e la volontà di non abbandonare l’idea di una possibile coesistenza,
anche in un contesto segnato da tensioni e violenze estreme. Infatti, emerge
chiaramente che la maggioranza continua a credere nel dialogo e nella
diplomazia come uniche vie percorribili. Questo aspetto diventa ancor più
rilevante se consideriamo il contesto in cui tali opinioni si sono sviluppate:
immagini di distruzione, vite umane spezzate e tensioni inasprite avrebbero
potuto facilmente alimentare sentimenti di rabbia, vendetta e radicalizzazione.
Tuttavia, i dati mostrano come molti scelgano di guardare oltre la crisi
presente, mantenendo viva la speranza in una soluzione capace di garantire
stabilità e dignità a entrambe le parti coinvolte. Come risulta dal sondaggio,
viene espressa maggiore fiducia per la soluzione ‘a due Stati’, ritenuto il
compromesso più promettente per tutelare i diritti dei palestinesi e assicurare
una maggiore stabilità regionale. Questo sostegno alla pace rappresenta anche
un richiamo morale e politico per i decisori globali. Non è sufficiente
intervenire solo durante le crisi più gravi: è necessario investire in processi
di pace inclusivi, sostenibili e coerenti con i desideri delle popolazioni
coinvolte. Le voci che chiedono pace, se ascoltate e valorizzate, possono
diventare le fondamenta di soluzioni realistiche e condivise, interrompendo il
ciclo di violenza e sfiducia che da decenni segna la regione. Infine, questi
dati offrono un motivo di speranza per il futuro. In un mondo spesso dominato
da notizie di conflitti e narrazioni pessimistiche, sapere che esiste una
maggioranza silenziosa che continua a credere nella coesistenza è un potente
promemoria: il cambiamento è possibile. Questo desiderio di pace non è un
ideale astratto, ma una risorsa concreta che leader e istituzioni dovrebbero
coltivare con determinazione e responsabilità.