È
noto che la donna nei contesti islamici anche europei generalmente vive in una
condizione subalterna, che in alcuni tragici casi può assumere derive nefaste
con risvolti criminogeni. La condizione femminile è penalizzata dai precetti
islamici declinati in modo diverso a seconda delle correnti prevalenti nella
realtà locali: è inquietante che questo status di inferiorità sia spesso
vissuto con pacifica rassegnazione, cioè sia considerato la conseguenza di una
situazione culturale consolidata, ordinaria, inevitabile. Conseguentemente il
mondo musulmano – ovvero l’insieme degli Stati nei quali le disposizioni
coraniche influenzano con diversa intensità le leggi - ha una potenzialità
inesplorata: il contributo positivo che le donne potrebbero fornire alla vita
sociale, economica e politica. Paradossalmente, se si esplorano i rapporti di
genere nella società araba preislamica (fino al VII sec.), si scopre che il
profeta Maometto aveva migliorato la condizione delle donne, prevedendo in loro
favore diritti fino a quel momento inesistenti, nell’ambito tuttavia di uno
status giuridico minoritario rispetto a quello dell’uomo. In tempi più recenti
(fine XVIII/inizio XIX), molte donne musulmane hanno cominciato moderatamente a
rivendicare libertà e diritti, dando vita ad un ‘femminismo islamico’, ovvero
ad un movimento che si batteva contro i settori più integralisti, utilizzando
come arma la necessità di una corretta esegesi del Corano e dei principi etici
promossi dalle fonti del diritto islamico; tutto questo avrebbe consentito di
approdare ad una sostanziale uguaglianza fra uomo e donna. Parallelamente a
questo movimento, in alcuni Paesi a maggioranza islamica in tempi recenti sono
state attribuite responsabilità istituzionali apicali a donne, riconoscendone
un non comune valore di leadership. Alcuni esempi: Lala Shovkat è stata un
importante leader politico in Azerbaigian, Benazir Bhutto, Mame Madior Boye,
Tansu Çiller, sono state primo ministro rispettivamente in Pakistan, in
Senegal, in Turchia, Kaqusha Jashari ha avuto un importante ruolo nel Kosovo,
Megawati Sukarnoputri è un’ex presidente dell’Indonesia. Il Bangladesh è stato
il secondo paese al mondo ad avere una donna (la già menzionata Benazir Bhutto)
ai vertici dell’esecutivo (il primo Paese è stato l’Inghilterra nel XVI con
Maria I ed Elisabetta I). Le donne musulmane europee ‘militanti’ potendo
contare su una maggiore libertà hanno creato legami transnazionali mediante reti
che si avvalgono delle nuove tecniche di comunicazione e di informazione per
far circolare conoscenze, elaborazioni e iniziative. Il movimento delle
femministe islamiche europee, qualora si inserisca nella galassia dei movimenti
femministi internazionali, potrebbe costituire un prezioso valore aggiunto per
la costruzione di un femminismo globale attraverso il suo peculiare contributo.
Le rivendicazioni progressiste del movimento, infatti, non si rivolgono contro
l’Islam ma si articolano nel suo ambito. Le donne islamiche, infatti, non si
sentono vittime della religione, ma dell’affermazione di un sistema patriarcale
che è il risultato di vicende storiche: sono convinte che l’Islam garantisca
loro sufficienti diritti e opportunità. Non sarebbe il Corano ad imporre la
sottomissione femminile, ma gli uomini mediante erronee letture e manipolazioni
dei testi sacri. Il rapporto con la religione pertanto è ciò che maggiormente
differenzia questo movimento rispetto al femminismo occidentale: mentre il
femminismo occidentale ha radicate connotazioni laiche, quello islamico svolge
la sua funzione progressista senza rinnegare il proprio retaggio confessionale,
avvertendo tuttavia la necessità di una ridefinizione di alcuni valori fondanti
per liberare l’Islam dalle sovrastrutture che lo hanno allontanato dai
contenuti originari. In questo contesto il ritorno all’uso del velo da parte di
giovani donne musulmane europee può essere considerato il simbolo di una
ritrovata modernità nell’ambito dell’identità femminile islamica. Il cammino
dell’emancipazione femminile di giovani donne musulmane che vivono in Europa
può esprimersi anche con la rivendicazione del diritto alla libertà di vivere
secondo gli usi e costumi occidentali. Purtroppo, non è raro che questi
tentativi di omologazione vengano interpretati come tradimenti di una malintesa
sacralità della cultura di origine ed entrino in rotta di collisione con
ambienti familiari fondamentalisti e radicali con esiti drammatici, tra cui
l’uccisione per mano dei propri familiari. Questi fatti, anche se sono sempre
il prodotto di una follia criminale, evidenziano il fallimento di un processo
di integrazione che impone una riflessione libera da idee preconcette, da
oziose polarizzazioni, da un moralismo benpensante. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
sabato 3 giugno 2023
MUSULMANI ED EUROPA. LE CONTRADDIZIONI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE. LA CONDIZIONE DELLA DONNA. (13.6.2022)
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