Introduzione
Gli
ultimi lustri del XX secolo e l’inizio del XXI sono stati caratterizzati da
grandi cambiamenti. Con la caduta del muro di Berlino (1989) e la conseguente
disgregazione del blocco sovietico, è venuto meno l'antagonista per il quale
era stata costituita l'Alleanza Atlantica. Fino a quando la realtà politica
mondiale si era retta sul precario equilibrio Usa-Urss (l’Europa occidentale
era saldamente integrata nel fronte americano), era in atto una sorta di
bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare caratterizzato
da uno stato permanente di ostilità reciproche. La dissoluzione dell’Unione
Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando un'egemonia degli Usa rimasta di
fatto l'unica reale superpotenza. La contrapposizione fra il mondo islamico
fondamentalista e l’Occidente ha sostituito il vuoto creato dal crollo
dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islam non è soltanto una religione ma
è anche un’ideologia politica. Da questa contrapposizione si sono poi
sviluppati la deriva jihadista e il terrorismo di matrice
islamica. A tutto questo si è aggiunta la difficile individuazione di una
strategia efficace per il contrasto della pressione dei flussi migratori
provenienti dal nord Africa. Queste contingenze sono fonti di emergenze
che mettono a dura prova la coesione dell’Europa.
La
dittatura delle minoranze
Negli
Stati democratici occidentali il principio cardine è quello di maggioranza, in
base al quale nell’assunzione delle determinazioni di governo la volontà
espressa dai più deve essere considerata come il volere di tutti. Per evitare
gli abusi delle maggioranze il principio maggioritario è sottoposto a
correttivi a tutela delle minoranze. Un intellettuale libanese, spesso
controcorrente, Nassim Nicolas Taleb, con un recente saggio[1] ha rilevato
che i regimi occidentali attualmente sono soggetti ad un rischio opposto,
ovvero a quello di essere eccessivamente condizionati dalle minoranze, che si
affermano in virtù di un malinteso uso della democrazia. Attraverso alcuni
rilevamenti empirici lo studioso ha concluso che alcune minoranze
particolarmente attive e intransigenti necessitano solo di un’esigua
percentuale (3-4%) per imporre con le loro rimostranze le proprie preferenze
all’intera popolazione. Così l’improbabile può governare la nostra vita.
Nello stesso tempo si produce un altro effetto, ovvero che quelle scelte
sembrino volute dalla maggioranza stessa. Tali possibili derive dell’ordine
democratico possono limitare l’intera collettività: questo avviene quando vere
e proprie corporazioni, come specifiche categorie di lavoratori o di
professionisti, per perseguire i propri obiettivi causano disagi a tutta la
comunità. Ma le istanze di pochi possono anche condizionare le dinamiche
istituzionali: non è raro, infatti, che piccoli gruppi politici con
iniziative ostruzionistiche paralizzino l’iter parlamentare
di provvedimenti normativi o ostacolino il normale svolgimento delle attività
istituzionali. Tutto nel rispetto formale delle regole vigenti. Senza entrare
nel merito delle specifiche questioni, queste condotte sono un corollario
dell’assenza di un maturo senso dello Stato: nei momenti di crisi sarebbe
opportuno sforzarsi di anteporre la prioritaria esigenza di un dialogo
costruttivo fra poli opposti agli interessi di parte strutturati su differenti
presupposti ideologici. Inoltre, una vera democrazia non deve diventare lo
scudo di chi vuole imporre con la forza la propria volontà. Paradossalmente il
potere di una minoranza non sempre ha un esito negativo, ovvero l’egoistica
ipertutela di interessi particolari: la creazione o l’evoluzione di valori
morali nella società, infatti, non necessariamente deriva da una più ampia base
di consenso su di essi, ma può scaturire anche dalle iniziative di un ristretto
numero di persone che con consentite pressioni impongono a tutti una maggiore
rettitudine. Il potere delle minoranze, secondo le deduzioni politicamente
scorrette di Taleb, troverebbe fondamento in un’eccessiva tolleranza e
flessibilità della maggioranza. Forse questa dinamica è anche conseguenza
dell’avvento della post democrazia, che ha come corollario una
generale crescente passività e disaffezione dei cittadini. Come è stato
rilevato da un politologo britannico[2] nei sistemi
occidentali si stanno instaurando prassi che comportano una progressiva
diminuzione di interesse per le vicende delle istituzioni. In un tale contesto
si afferma un individualismo che impedisce l’emergere di una definita coscienza
collettiva: la democrazia si avvia al tramonto mentre la società civile è
sempre più lontana dalla società politica.
Delusioni
e speranze
Il
25 marzo scorso (2017) si sono festeggiati 60 anni dagli accordi istitutivi
della Comunità Economica Europea. Gli anniversari sono sempre occasione per un
bilancio. Questa ricorrenza è caduta in un momento di crisi delle istituzioni
comunitarie. È oggetto di riflessione innanzitutto l'influenza che negli ultimi
tempi hanno esercitato le scelte finanziarie della Germania, che, per favorire
la propria economia, ha promosso una politica di austerità imponendo ai Paesi
membri pesanti manovre fiscali e tagli alla spesa pubblica. La conseguente
spinta deflazionistica ha prodotto una riduzione della circolazione del denaro
e una contrazione dei consumi, cause di una generale recessione economica e di
un diffuso impoverimento. L'Unione Europea ha inoltre intrapreso con
disinvoltura un allargamento verso ‘est’ passando in poco tempo da 15 a 28
Stati senza che si realizzasse una reale reciproca integrazione. In qualche
occasione i nuovi Paesi hanno evidenziato un'assenza di cultura della
solidarietà, componente indissolubile dello spirito comunitario. Molte
aspettative che i Trattati avevano alimentato sono rimaste deluse. Con
l'Accordo di Maastricht (1992) l'Europa, che in quel momento era solo una
realtà economica, sarebbe dovuta diventare un'istituzione politica; questa
evoluzione, che aveva come presupposto la cessione da parte di ciascun Paese di
una quota della propria sovranità, non si è sufficientemente realizzata a
causa di alcune egoistiche resistenze nazionali. L'introduzione
della moneta unica non preceduta dalla creazione delle opportune
sovrastrutture ha penalizzato alcune economie, quella italiana in particolare.
Il ritorno alla lira, tuttavia, comporterebbe pericolosi dissesti finanziari.
L'ingresso nell’euro e più in generale nell'Unione Europea ha avviato processi
irreversibili che non consentono un indolore ritorno al passato. Va
ripristinato il ruolo di governo della Commissione Europea, che da esecutivo
comunitario si è trasformata nel tempo in uno sterile e burocratico gendarme
concentrato sul controllo della condotta degli Stati membri. Nel Consiglio
Europeo del 22-23 giugno scorso (2017) gli Stati Membri hanno concordato sulla
necessità di avviare una cooperazione strutturata in campo militare, non solo
per rafforzare la sicurezza e la difesa esterna, ma anche per fornire un
contributo alla pace e alla stabilità globale. La partecipazione degli Stati
aderenti all’iniziativa dovrà essere coerente con i rispettivi impegni
nazionali assunti nell’ambito dell’ONU e della NATO. La mancanza di
cooperazione in questo ambito ha un grave costo economico in termini di duplicazioni
di iniziative difensive. Se i Paesi dell’Unione potessero
condividere mezzi, risorse, e condurre insieme anziché separatamente attività
di ricerca, ne trarrebbero vantaggio l’efficienza e il risparmio delle finanze.
Pertanto, la Commissione Europea ha proposto l’istituzione di un fondo per la
difesa comune, la cui finalità quindi non sarà la creazione di un esercito
europeo da impiegare anche in scenari di crisi - obiettivo ambizioso che
necessita tuttavia della definizione di una più precisa base giuridica - ma la
razionalizzazione dell’impiego delle risorse degli Stati in questo settore
attraverso incentivi alla collaborazione. Questa iniziativa, il cui principale
valore aggiunto consisterà nell’unire gli sforzi per permettere che le attività
siano pianificate in maniera coordinata, costituisce un nuovo efficiente
approccio che potrà essere eventualmente esteso anche ad altre aree di
competenza. Ci saranno molte difficoltà da superare, non solo di carattere
tecnico. Le attività in questo ambito, anche se hanno intenti solo difensivi,
comportano valutazioni che per essere condivise dai Paesi membri presuppongono
coesione politica e solidarietà, mentre l’Europa appare sempre più divisa. In
ultimo, il malcontento può generare la tentazione di uscire dall'Unione
seguendo l'esempio britannico. Si tratta di pericolose derive dagli effetti
imprevedibili. L'Unione Europea resta un'irrinunciabile opportunità, che
richiede tuttavia un incisivo e coraggioso processo di riforma. Come molte
realtà, l'Unione Europea è un meccanismo perfetto in tempi di pace e
prosperità, ma evidenzia i suoi limiti nei periodi di crisi.
Il
politicamente scorretto
Con
l'espressione politicamente corretto si indica comunemente un
atteggiamento di preconcetta adesione a principi di consolidata considerazione
sociale ritenuti incomprimibili ed il contestuale aprioristico rigetto di
qualsiasi presunto pregiudizio che contrasti con asserite conquiste della
civiltà; questi presupposti spesso bloccano il libero confronto su alcuni temi.
Ne è un esempio l'ipersensibilità per le problematiche razziali o di genere che
impedisce un'aperta discussione su argomenti che coinvolgono tali questioni.
Al politicamente corretto si oppone il politicamente
scorretto, che consiste in opzioni che si oppongono al conformismo
benpensante. Un esempio pratico: da più di un decennio le società occidentali
stanno attraversando una crisi economica che si riflette sulle comunità con
fenomeni indotti come la diminuzione delle risorse disponibili a livello individuale
e l'aumento della criminalità. Come corollario di questa situazione parte
dell'opinione pubblica propone che principi etici che si ritengono
aprioristicamente intangibili, come l'accoglienza indiscriminata di migranti
stranieri, debbano essere rinegoziati. Molti leader politici occidentali stanno
investendo su questo tratto della psicologia collettiva, cioè sulla esigenza
anche subliminale di una ridefinizione del nucleo dei fondamenti che integrano
il politicamente corretto. Lo fanno adottando un linguaggio aspro,
brutale, fuori dagli schemi della politica tradizionale e formalmente in linea
con il carattere non convenzionale dei contenuti. Queste strategie riscuotono
un successo popolare: lungi dall'essere estemporanee, sono espressione di un
disegno che pone in diretta correlazione il diffuso malcontento con le derive
del politicamente corretto. Tuttavia, questi movimenti sono esposti
ad una crisi di credibilità, che deriva dalla consapevolezza che una visione
critica del politicamente corretto non possa essere imposta
dall'alto, ma richiede un cambiamento culturale che maturi il discernimento
individuale.
Flussi
migratori e multiculturalismo
La
convivenza multiculturale, che a causa del costante flusso migratorio
caratterizza i Paesi occidentali, impone continue negoziazioni fra i vari
gruppi etnici al fine di evitare conflitti fra le diverse identità. Queste
negoziazioni non possono riguardare i precetti dell’ordinamento giuridico
vigente, che sono un parametro di riferimento per valutare le conseguenze della
propria condotta a cui tutti devono indistintamente sottostare. A tutti gli
appartenenti alla comunità deve invece essere garantita l’uguaglianza, che
insieme agli altri principi illuministici della libertà e della giustizia, è il
cardine delle democrazie occidentali; l’uguaglianza per essere realmente tale
deve essere integrata da alcuni correttivi necessari per assicurare una reale
giustizia nei casi concreti. In particolare, non possono essere trattate allo
stesso modo situazioni apparentemente uguali ma in concreto diverse, mentre in
maniera simmetricamente opposta non possono essere considerate diversamente
situazioni uguali. In altri termini va perseguita l’uguaglianza sostanziale,
non quella meramente formale. Spesso si fa riferimento alla tolleranza per
indicare la predisposizione individuale da privilegiare nei rapporti
interpersonali. Voltaire fondava la tolleranza sulla comprensione
dell’imperfezione umana. Tutti gli uomini sbagliano, senza distinzioni di
razza, di sesso, di religione, di condizioni personali e sociali; per questo,
per convivere in armonia si deve essere reciprocamente indulgenti.
Paradossalmente il concetto di tolleranza ha delle sfumature vagamente
discriminatorie. Nella pratica, infatti, dietro la benevolente accettazione
dell’altro si cela un implicito giudizio di superiorità, di diffidenza, o
addirittura di biasimo o di condanna. La convivenza dovrebbe invece essere
strutturata sul riconoscimento della pari dignità dell’altro. Segnatamente in
materia di immigrazione la demagogia politica, rigidamente polarizzata sui
principi simmetricamente opposti dell’accoglienza generalizzata o del
respingimento indiscriminato, strumentalizza le possibili derive conseguenti ai
due atteggiamenti, rendendo difficili approcci costruttivi che possano
conciliare i principi di civile solidarietà, con i problemi di sovraffollamento
e di criminalità indotta. L’integrazione è un dovere civile, ma ha senso
qualora sia reale e non si esaurisca in affermazioni di facciata da spendere
per fini politici o elettorali. I mutamenti delle condizioni di vita e i costi
sociali che richiede la dimensione multiculturale devono essere tali da non alimentare
una contrapposizione fra i cittadini del Paese ospitante e i nuovi arrivati.
Solo tenendo presenti questi presupposti e rinunciando ad alimentare l’enfasi
populista di un facile buonismo o all’opposto quella ad effetto di
un’inconsistente intransigenza, le questioni connesse alla convivenza
multirazziale, seppur non risolte, potranno essere affrontate seriamente.
I
rapporti con l’Islam
Il
XXI secolo è iniziato con il grave attentato di matrice islamica alle Twin
Towers dell’11 settembre 2001. Questo articolo non è la sede per un’analisi dei
controversi rapporti fra terrorismo e Islam. Considerando a parte gli attentati
terroristici, la strumentalizzazione mediatica unita a qualche latente
tentazione islamofoba con un po' di approssimazione ha trasformato vicende che
avvengono nelle nostre realtà urbane, nelle quali sono coinvolti elementi
provenienti da Paesi islamici, in casi paradigmatici di una manifesta
conflittualità fra la cultura islamica e quella occidentale, supportando così
la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà. Secondo le
deduzioni dello studioso statunitense le fonti attuali dei conflitti fra i
popoli non sarebbero né di natura ideologica né legate a rivendicazioni
economiche, ma troverebbero la loro origine nelle differenti identità religiose
e culturali: in questo scenario andrebbe collocato questo confronto ideologico.
Tale interpretazione è supportata da alcune evoluzioni che si sono manifestate
nelle comunità islamiche. Negli anni ’60 i musulmani immigrati nei Paesi europei
aspiravano ad integrarsi abbandonando spontaneamente l’abitudine di indossare
gli indumenti tipici dei contesti nazionali di provenienza. Attualmente il
ritorno da parte delle nuove generazioni all’uso del niqab,
dello chador, del burqa e del qamis, non
trova fondamento nell’adempimento di un dovere religioso, ma è un mezzo per
rivendicare l’appartenenza a una cultura diversa e per manifestare il rifiuto
dell’omologazione occidentale. Questo comportamento di ritorno alle tradizioni
sembrerebbe il prodotto di un conflitto generazionale, analogamente a quello
che accade nelle famiglie occidentali quando i genitori non comprendono le
condotte dei figli a causa di differenti abitudini ed esperienze, o di una
diversa formazione culturale o religiosa. Peraltro, in generale nei giovani si
riscontrano due esigenze confliggenti che non raramente alimentano un acceso
rapporto dialettico con i genitori: la necessità di ribellarsi per affermare
l'originalità della propria individualità, e il bisogno autoconservativo di
conformarsi ai canoni della società. Va comunque precisato che l’Islam non è
soltanto una religione ma è anche una realtà geopolitica con peculiari
contenuti ideologici; non può essere considerato una monade unitaria, essendo
un universo estremamente articolato e composito.
Sotto attacco terroristico
Nel
secolo precedente il terrorismo di matrice islamica, sebbene già attentamente
seguito negli Stati Uniti, non era considerato in Europa una questione di
particolare rilevanza. Le iniziative comunitarie si esaurivano nel monitorare
le situazioni nazionali degli Stati membri. L’attacco agli USA nel settembre
del 2001 ha evidenziato che il terrorismo di matrice islamica aveva compiuto
una pericolosa evoluzione diventando una minaccia di primaria importanza per
tutto il mondo occidentale, come poi la successiva lunga sequenza di attentati
in Europa ha tragicamente confermato. La fede, quando è vissuta come ideologia,
richiede un impegno collettivo rivolto a cambiare le strutture della società. A
questo fine gruppi jihadisti si sono strutturati per
promuovere con ogni mezzo, l’instaurazione di un ordine sociale nel quale le
leggi civili potessero essere sostituite da un ordinamento giuridico plasmato
sulla legge divina. Il terrorismo di matrice islamica è una degenerazione di
questo atteggiamento: l’uso della violenza e della minaccia sono infatti una
scorciatoia per l’instaurazione di una società ispirata ai precetti del Corano.
È in atto una guerra asimmetrica caratterizzata dall’azione spietata e senza regole
del terrorismo, che con i suoi attacchi ha l’obiettivo di modificare la
normalità della nostra vita quotidiana trasformando tutti i momenti di
ordinaria serenità in occasioni di paura e sofferenza. Per contrastare
efficacemente questa minaccia non è sufficiente la coordinata risposta
operativa e preventiva degli apparati di intelligence e
sicurezza dei Paesi occidentali, ma è opportuno che i popoli europei ritrovino
solidarietà e coesione intorno ai loro valori fondanti. Roberto Rapaccini
[1] Nassim
Nicolas Taleb, Il più intollerante vince: la dittatura delle minoranze,
online (sito Medium), 2016.
[2] Colin
Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari, 2003.