Cercando
di interpretare le contrapposizioni che hanno caratterizzato lo scenario
internazionale nell'anno che si sta chiudendo, mi capita spesso di pensare
alla geopolitica delle emozioni, oggetto di un fortunato saggio
scritto qualche anno fa dallo studioso francese Dominique Moisi. Negli anni
immediatamente precedenti alla pubblicazione del saggio stava acquisendo sempre
più credito la tesi di Samuel Huntington sullo scontro di civiltà:
secondo lo studioso statunitense in futuro le fonti fondamentali di conflitto
fra i popoli non sarebbero state né di natura ideologica né legate a
rivendicazioni economiche, ma avrebbero trovato la loro origine nelle
differenti identità religiose e culturali, che avrebbero diviso nazioni, Paesi,
gruppi ed etnie. Da queste premesse risulta naturale collocare il confronto in
atto fra Islam e Occidente nello scenario previsto da Huntington; tuttavia,
questa tesi, che accomuna indiscriminatamente la religione musulmana al
fondamentalismo, viene smentita nell'auspicio che fedi e culture diverse
possano coesistere pacificamente e cooperare. Purtroppo, i fatti mostrano un
incremento dell'islamismo jihadista, che fomenta divisioni anche
all'interno del mondo arabo, mentre negli ambienti politici statunitensi ed
europei cresce come reazione un generalizzato pregiudizio islamofobo. Inoltre,
l'aumento degli attacchi contro cristiani, indù e musulmani sciiti prova che
tutti i conflitti religiosi si stanno radicalizzando. La possibile veridicità
della tesi di Huntington sullo scontro di civiltà spaventa perché il multiculturalismo
- cioè la pacifica convivenza di religioni e culture - non è un'ingenua
aspirazione buonista, ma è l'unica alternativa alla violenza, al terrorismo,
alle persecuzioni, alle stragi. La geopolitica delle emozioni fornisce una
chiave di lettura diversa, meno apocalittica ma altrettanto suggestiva; secondo
questa tesi i conflitti attuali sarebbero radicati soprattutto su pregresse
specifiche contingenze storiche, che avrebbero determinato la creazione di zone
omogenee sotto il profilo delle motivazioni emozionali. In particolare,
l'Occidente - considerato non in senso geografico ma come l'insieme delle aree
tradizionalmente definite industrializzate, e quindi Europa occidentale, Usa,
Giappone - sarebbe dominato dalla cultura della paura; i Paesi arabi e il mondo
musulmano sarebbero condizionati dalla cultura dell'umiliazione, mentre la
Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti sarebbero animati dalla cultura della
speranza. Lo scontro di civiltà è sostituito dallo scontro delle emozioni. Più
in dettaglio, il mondo occidentale vive nel timore di perdere la propria
identità a causa dei flussi migratori e delle concorrenti culture diverse.
L'Europa, anche se è ossessionata dall'oblio delle proprie origini, è assillata
dal rispetto per chi è portatore di valori diversi, e non raramente, in virtù
di una non richiesta dissociazione dal patrimonio delle acquisizioni storiche,
rinnega le proprie radici, nello specifico quelle giudaiche e quelle cristiane.
A livello globale, poi, la società occidentale convive con il terrore di
perdere la propria posizione etnocentrica maturata nei secoli. I disperati che
vengono dai confini del mondo fuggendo una miseria inumana e le atrocità delle
guerre insidiano, con una competitività dettata dalla lotta per la sopravvivenza
che può degenerare in aggressività e violenza, l'ordine sociale consolidato
che, seppur discutibile, inadeguato, iniquo e presupposto della
cristallizzazione di conflittualità irrisolte, ha garantito nel tempo stabilità
e sicurezza al sistema. Inoltre, il capitalismo finanziario e speculativo non
regge l'impatto con le economie emergenti, più solide in quanto fondate su
produttività e risorse, e questo crea un generale clima di precarietà. Alla
paura dell'Occidente si contrappone l'umiliazione della Russia che ha vissuto
il crepuscolo di un grande impero: accanto al rimpianto per un passato nel
quale lo sterminato universo sovietico ha dominato la scena mondiale, c'è la
volontà di riemergere, di ritrovare la grandezza pregressa, di non arrendersi
al tramonto definitivo di un'indiscussa centralità nelle vicende politiche
mondiali, di non soccombere alla perdita di una leadership condivisa alla pari
solo con gli Stati Uniti. Anche i Paesi arabi, e più in generale il mondo
musulmano, sono dominati da un sentimento di umiliazione. Questi popoli si
sentono defraudati dalla Storia che non ha riconosciuto il ruolo centrale che
avrebbero meritato per la loro civiltà e per l'essere portatori di una verità
rivelata, quella fissata nel Corano. È maturata in essi la consapevolezza di
essere stati emarginati negli ultimi decenni dalla politica mondiale, e, in
ultimo, dalla globalizzazione, mentre il baricentro di qualsiasi vicenda si
consumava in Occidente. Purtroppo, l'umiliazione può essere il presupposto di
reazioni devastanti, può degenerare in odio come le derive jihadiste dimostrano.
L’Asia, invece, anche se versa in condizioni di capillare arretratezza e
povertà, è animata dalla speranza che si radica sulla fondata aspirazione ad
una prosperità futura, alimentata da un'economia in pieno sviluppo, mentre
quella delle altre aree del mondo vive una pericolosa stagnazione; questo
sostiene la voglia di progresso e la volontà di riuscire, mentre l'ottimismo è
un prezioso tonico per i mercati finanziari. Cina e India sono le punte
avanzate di questa condizione; sembra che abbiano fatto propria la suggestiva
massima di Lao Tse, che rivolgo ad ognuno come augurio per il prossimo
anno: "Un viaggio di mille chilometri incomincia sempre con un
piccolo passo". Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
martedì 6 giugno 2023
LA GEOPOLITICA DELLE EMOZIONI (20-12-2015)
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