Il recente film ironico-surreale 'Pecore in erba' - che racconta con lo stile
del (falso) documentario la paradossale vicenda di un attivista del diritto
alla libera professione del razzismo, di un antisemita che trova
difficoltà ad essere compreso in una società nella quale il razzismo, sebbene
in forma latente, è saldamente e insidiosamente radicato - è un esperimento
spericolato e stravagante che mi ha fatto riflettere su come l'Antisemitismo
cambi forme, si mimetizzi, ma rimane una costante della nostra società. Anche
nelle reti sociali l’avversione per gli Ebrei è un fenomeno diffuso che si
avvale anche della costituzione di gruppi 'ad hoc' a cui si aderisce per
emulazione, per solidarietà amicale, per superficiale suggestione (questi
meccanismi operano soprattutto nelle fasce adolescenziali). Prima della nascita
di Internet, l’Antisemitismo era un fenomeno circoscritto all’interno di una
limitata cultura, se così può essere definita. Con il Web, ma soprattutto con i
'social network', si è assistito purtroppo ad un incremento di iniziative
antiebraiche: una diffusa deprecabile propaganda induce sottilmente nella
comunità virtuale - soprattutto nei giovani che non hanno avuto una
conoscenza diretta delle persecuzioni nazifasciste - la convinzione che
l’Antisemitismo sia un punto di vista socialmente accettabile come tanti altri;
in concreto i social network, oltre ad amplificare il pregiudizio, hanno
determinato una banalizzazione dell’aggressione antiebraica. L’ampiezza del
fenomeno e la sua espansione comunicano una superficiale e inconsapevole
accettazione del pregiudizio razziale: così viene recepito dai cybernauti al
pari di una qualsiasi ideologia politica o, peggio, del tifo per un club
sportivo. Così, nel contesto virtuale, seppur non condiviso, l’odio antisemita
viene 'normalizzato': è inquietante che materiale razzista sia
proposto in un contesto di apparente normalità come se si trattasse di una
normale espressione di pensiero. Anche i videogiochi sono un altro ambito nel
quale il pregiudizio può essere alimentato dalle relazioni con la realtà
virtuale. In essi si interagisce con le immagini riprodotte in un monitor.
Inizialmente il 'partner' del gioco era soltanto il software e l’hardware del
dispositivo elettronico; successivamente i videogiochi si sono evoluti fino a
prevedere la possibilità di interagire e quindi di misurarsi con un altro
giocatore collegato online e quindi lontano e non fisicamente presente. I
videogiochi sono oggetto di un complesso dibattito, per i loro contenuti che in
alcuni casi coincidono con simulazioni di attività particolarmente violente,
offensive, o, più in generale, diseducative, e per le forme di dipendenza che
possono generare. Ne sono fruitori non solo gli appartenenti a fasce giovanili,
ma anche adulti alla ricerca di momenti di relax, di evasione, o di un
passatempo che possa creare una soluzione della routine quotidiana. Un’indagine
effettuata nel 2008 ha rivelato che i videogiochi sono principalmente praticati
dagli individui compresi fra i 16 e i 29 anni. Con riferimento al pregiudizio
assumono rilievo alcuni videogiochi che alimentano o contribuiscono a creare
stereotipi offensivi di una fede religiosa, dei suoi fedeli, o di
un'etnia. Purtroppo, la Rete offre molti casi di questo genere, nei
confronti dei quali, anche nelle ipotesi più gravemente lesive, non esistono di
fatto forme interdittive giustificabili per i contenuti diffamatori
dell'esercizio ludico. Anche in questo contesto il pregiudizio, lo stereotipo,
l’odio razziale quando divengono l’oggetto di un’attività ludica vengono
banalizzati e attraverso la ripetitività dell’evento sono inconsapevolmente
accettati come una realtà normale, mentre scompare qualsiasi giudizio critico,
del tutto incompatibile con le dinamiche 'superficiali' del gioco. Roberto
Rapaccini