Da
tempo il mondo arabo ha scoperto l'importanza della Rete: tuttavia cresce la
diffusione e l’utilizzo di Internet ma non la libertà di espressione. Secondo i
dati dell’Anhri (l’Arabic Network for Human Rights, un'organizzazione non
governativa con sede in Egitto che si occupa della promozione della libertà di
espressione in Medio Oriente e nel nord dell’Africa) sono 157 milioni circa i
'cybernauti' nel mondo arabo, metà dei quali possiede un account 'Facebook'. In
crescita è anche l’utilizzo dell’altro principale social network, cioè
'Twitter', che registra oltre 10 milioni di account solo tra Egitto e Arabia
Saudita; solo in Tunisia ed in Palestina il livello di libertà di informazione
è sufficiente. Non potendo contenere l’interesse nei confronti delle
potenzialità della Rete, alcuni governi islamici hanno promosso la creazione di
un Web dai contenuti controllati. Basso è il livello di libertà in Paesi come
l'Arabia Saudita e il Bahrain, protagonisti di eclatanti episodi di censura. Ad
esempio, il blogger Raif Badawi è stato condannato dal regime saudita a mille
frustate e dieci anni di carcere per insulti all’Islam. Nabeel Rajab, un
attivista per i diritti umani, ha scontato due anni per dei tweet in cui
commentava l’arruolamento nelle file dello Stato Islamico di agenti delle forze
di sicurezza del Bahrein e la situazione precaria dei diritti umani nel suo
Paese. Quello arabo è generalmente un Internet con siti che corrispondono agli
omologhi occidentali, ma informati ai valori della religione musulmana e
depurati da qualsiasi depravazione e immoralità. In questo modo ? si sostiene
nel mondo arabo ? si eviterebbe il 'far west' che caratterizzerebbe la Rete in
Occidente, laddove la libertà talvolta diverrebbe anarchia e licenza. Moralizzare,
attraverso sottili operazioni di cosmesi ispirate al rispetto dei valori
dell’Islam, spesso equivale a censurare, ad annullare le possibilità di
Internet, che peraltro hanno avuto una considerevole importanza nell’avvio
della Primavera Araba. Così è stata creata Dahsha, la Wikipedia dedicata
interamente al mondo islamico e al servizio degli utenti di lingua araba; è in
Rete Salamworld, l’alternativa araba a Facebook, che ha una particolare
sensibilità per i precetti del Corano ed è strutturato - dicono i promotori -
per consentire ai giovani di navigare in un contesto nel quale non debbano
confrontarsi con idee lontane dalla loro cultura. Conformemente al concetto
politico di Umma (ovvero di una comunità ideale che unisce tutti gli uomini di
fede musulmana), Salamworld costituisce una parallela comunità virtuale
islamica. Il primo quesito che viene naturale porsi è se i 'cybernauti' arabi
fruiscano di libertà di espressione. Nelle nazioni islamiche condizioni sociali
(ad esempio, l’omosessualità), cause politiche (la contestazione dei regimi al
potere), motivi religiosi (l’appartenenza a fedi diverse dall’Islam) da sempre
penalizzano le voci fuori dal coro, impedendo il loro accesso ai mass-media:
Internet sembrava poter restituire le libertà in precedenza negate. Sono stati
impiegati software di filtraggio, blocchi e sospensioni di Rete, esercitate
pressioni sugli operatori delle telecomunicazioni nelle ipotesi in cui gli
organismi statali non disponessero direttamente delle infrastrutture di connessione.
Al fine di esercitare un diretto controllo sulle comunicazioni, alcuni Stati
arabi, come l’Arabia e Tunisia, hanno concesso il monopolio della gestione dei
servizi di Internet ad aziende di Stato. In aggiunta si è anche ricorso a
soluzioni tradizionali, ovvero perseguire il titolare dell’utenza che viola il
limite del lecito (secondo la legge locale), configurando le condotte sgradite
come forme di diffamazione, di danneggiamento della reputazione dello Stato, o
come violazioni della pubblica moralità. Altri governi hanno risolto il
problema aprioristicamente, privando i cittadini di accesso a Internet con le
più varie motivazioni. Nel 1991 la Tunisia è stata la prima nazione ad avere
accesso a Internet, che invece è stato introdotto negli altri Paesi all’inizio
della seconda metà degli anni ’90 ad eccezione dell’Arabia Saudita e dell’Iraq
che hanno fornito i propri cittadini di questo servizio rispettivamente nel
1999 e nel 2000. All’inizio gli organismi governativi, non rendendosi conto
delle potenzialità del nuovo strumento, hanno incoraggiato la diffusione
dell’informatica. Da un po’ di tempo si è assistito a un aumento della
trattazione dei temi religiosi nelle pagine web in arabo, che si limitano a
favorire la diffusione della conoscenza dell’Islam o contengono note
interpretative. La maggior parte di questi siti di ispirazione confessionale
risultano ubicati principalmente nella regione del Golfo Persico, nella quale
le disponibilità finanziarie consentono uno sfruttamento ottimale delle risorse
tecnologiche. Generalmente queste pagine web sono di confessione sunnita: le
pagine web di contenuto religioso sono il 65% di tutte quelle in lingua araba.
Alcuni di questi siti hanno un contenuto fortemente integralista e sostengono
anche la necessità dello scontro per motivi religiosi non solo con i non
musulmani, ma anche con altri gruppi islamici. Pur essendo messi al bando dalle
autorità, questi siti riescono a bypassare i divieti e i filtri predisposti
dagli apparati istituzionali. Molti governi inoltre applicando una censura
selettiva, che cioè valuta specificamente ogni singolo caso, considerano
manifestazioni di libertà di espressione i siti che, pur essendo estremisti e
fortemente integralisti, hanno un contenuto che i poteri al governo
discretamente condividono. Questi siti hanno progressivamente adottato un
linguaggio meno aggressivo e più formalmente corretto, soprattutto dopo l’11
settembre, a cui è seguito un più incisivo monitoraggio della Rete da parte
degli Stati Uniti e dei governi di alcuni Stati arabi. I gruppi antagonisti dei
regimi arabi hanno presto individuato in Internet uno strumento per infiltrare
nel web articoli e notizie che esprimessero le posizioni critiche della
dissidenza; la Rete è quindi di fatto un mezzo di propaganda alternativo ai più
inaccessibili media tradizionali (giornali e canali radiotelevisivi). La
conseguente attività repressiva delle istituzioni pubbliche ha portato
all’adozione di rigide misure restrittive della libertà personale nei confronti
di giornalisti e attivisti per la democrazia. La repressione non ha ridotto
tuttavia l’opposizione che, non trovando più spazio nei rispettivi Paesi, ha
cominciato a operare anche dall’esilio, utilizzando postazioni situate
all’estero per mobilitare all’interno dei Paesi la dissidenza e diffondere
all’estero la conoscenza delle pratiche antidemocratiche e inique dei governi.
I regimi attualmente raddoppiano i loro sforzi per la repressione della libertà
in Rete, anche se formalmente dichiarano di combattere solo la pornografia e
gli atti contrari alla moralità pubblica. I software utilizzati per bloccare i
siti dell’opposizione consistono in un servizio che numerose aziende
informatiche offrono a pagamento. I primi filtri vennero utilizzati negli USA
nei primi anni ’90 per evitare l’utilizzo improprio dei computer pubblici che
poteva concretarsi nell’accesso a siti porno grafici. Oggi questo tipo di
servizio viene utilizzato da Paesi come il Bahrein, lo Yemen, il Qatar, gli
Emirati Arabi per bloccare le pagine web che criticano i rispettivi governi e
provvedono al raccordo fra i manifestanti ai fini dell’organizzazione di
iniziative di protesta. È paradossale che questi programmi siano per lo più
prodotti da aziende statunitensi; in altri termini provengono dallo Stato che
formalmente è maggiormente impegnato a promuovere la libertà di parola e di
dissentire, e che finanzia inoltre massicciamente programmi per la diffusione
di informazioni per aggirare i blocchi: una tipica schizofrenia occidentale.
Roberto Rapaccini