Lo Stato islamico da alcuni mesi ha cominciato ad imporre il pagamento di un tributo ai cristiani residenti in alcune zone del territorio sotto la propria sovranità. L'alternativa al pagamento è la conversione all'Islam o la morte. Non si tratta di una novità, ma dell'applicazione di un desueto istituto previsto dalla Sharia. Nel periodo islamico classico (VII-XVI secolo) infatti non potevano far parte della Umma - cioè della comunità islamica - i fedeli di altre religioni, che pertanto non avevano il diritto di risiedere nella terra dell’Islam. Tuttavia la stessa legge islamica prevedeva un’eccezione per i fedeli delle religioni monoteiste, principalmente per gli ebrei e i cristiani (ma anche per gli zoroastriani, i sabei, gli induisti e ogni altro seguace di culti basati su testi sacri considerati dall’Islam di origine divina), ovvero veniva loro riconosciuta la possibilità di risiedere nella terra dell’Islam; questa opportunità però era subordinata al pagamento di una imposta personale e di una fondiaria, che avrebbero assicurato agli individui gravati dai tributi anche una protezione. La jizya era il termine arabo che indicava questi gravami. Questo quadro normativo era compreso nella Dhimma o Dhimmitudine (Dhimma in arabo significa ‘accordo di protezione’), che pertanto in concreto era un patto tra un’autorità di governo musulmana e fedeli non musulmani - generalmente cristiani ed ebrei - tenuti anche a un comportamento di subordinazione ai soggetti con capacità giuridica piena, ovvero ai musulmani. I Dhimmi erano gravati anche dal divieto di proselitismo e dal massimo rispetto della fede musulmana; il Corano, quindi, non imponeva loro di convertirsi all’Islam, ma li penalizzava con il pagamento di un tributo. Questo principio venne osservato nei primi secoli che seguirono l’espansione islamica; successivamente, questo patto venne occasionalmente disatteso e i dhimmi furono forzati a scegliere tra l’Islam e la morte. La condizione inerente a questo istituto si perdeva a seguito di violazioni delle norme relative allo status (da esse poteva conseguire anche la pena capitale), o per la conversione all’Islam. Quest’ultima non era vista con particolare favore perché comportava la cessazione dall’esazione dei tributi conseguenti la dhimmitudine. Il fondamento dell’istituto della Dhimma era la convinzione dei fedeli musulmani della loro superiorità rispetto ai fedeli di altre religioni; l’eccezione prevista per gli ebrei e i cristiani aveva radici nel carattere monoteista delle due fedi e nella discendenza dal comune padre Abramo. Inoltre, per gli islamici, convinti della superiorità della propria fede, l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza. Per ebrei e cristiani era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti alle violazioni delle condizioni imposte dalla legge islamica (da R. Rapaccini, 'Paura dell'Islam'). L'Isis, con il ripristino di questo istituto (la dhimmitudine), ha rimesso indietro l'orologio della Storia di alcuni secoli. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
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