RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

sabato 3 giugno 2023

GLI SCONTRI DI GERUSALEMME (13-5-2021)

 

I gravi fatti di Gerusalemme purtroppo non erano imprevedibili, ma questo non significa che ci si debba rassegnare all’impossibilità di un futuro di pace per la capitale della spiritualità monoteista. La repressione della polizia israeliana nei confronti delle rivendicazioni palestinesi, in particolare sulla Spianata delle Moschee, è stata di eccezionale e inaccettabile durezza. Anche se gli scontri attuali riguardano pure altre aree del Paese il problema centrale è Gerusalemme: di chi è la città? Di chi sono le case, si chiede la brillante giornalista–analista Paola Caridi, esperta di Medioriente? Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente diversa. Ha un milione di abitanti di cui 300.000 palestinesi, che non sono semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata all’impossibilità di vivere la loro città. D’altra parte, i coloni ebrei rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello Stato di Israele. Ma i Palestinesi, come profughi, erano stati legittimi assegnatari di quelle case. Si comprende come la questione originariamente non era solo politica.  Ora il contenzioso si è radicalizzato su posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. È anche sbagliato considerare questo uno scontro un conflitto fra ebrei e palestinesi, perché molti ebrei condannano e si dissociano dalla politica ‘dei coloni’.  La recrudescenza di questi scontri si colloca anche in un momento di crisi di rilevanza della questione palestinese, non più al centro degli equilibri geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale, alcune monarchie del Golfo in particolare, cercano di prendere le distanze dalla questione palestinese, sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini estremamente cauti, ed esplorano le possibilità di una normalizzazione dei rapporti con Israele. Gli accordi di Abramo sono la punta avanzata di questa istanza. La destra israeliana in questo momento è estremamente debole, non potendo più contare su un deciso sostegno americano; non ha una base elettorale sufficientemente solida per governare ed è incapace di considerare soluzioni alternative alla vessazione ed alla repressione dei palestinesi. Anche la leadership palestinese ha le sue gravi colpe. Con le sue divisioni ha dimostrato l’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’ e di accreditarsi come credibile e forte interlocutore politico, concentrandosi esclusivamente nella lotta ad Israele con tutti i mezzi. Ormai nessuna delle due parti crede nella possibilità di due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese. Anzi questa prospettiva sembra essere un alibi per non esplorare altre vie. Ritorna l’attualità del saggio (2017) di Aharon Bregman, scrittore e giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di Israele nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 venne acutamente definita ‘maledetta’. A seguito degli esiti del conflitto Israele, com’è noto, occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a quel momento territori egiziani, la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti alla Giordania, le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione e alla condizione giuridica dei territori occupati, e quelle causate dalla riluttanza di Israele alla restituzione dei territori conquistati e dalla politica di insediamento coloniale. Come precisa Bregman, gli esiti della Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella percezione della principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti. Conseguentemente quei drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’ piuttosto più che un piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte del mondo occidentale cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani, vittime dell’olocausto nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi, principalmente i palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per questo il trionfo del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria maledetta’. La storia successiva è la sequenza di tante opportunità per risolvere questo drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei governi israeliani e a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una leadership politica litigiosa e poco lungimirante. Tutto questo ha portato alla situazione attuale. Sullo sfondo, come già detto, la questione israelo-palestinese ha perso la sua centralità nella geopolitica internazionale. Forse dietro questa recrudescenza c’è un inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro dell’attenzione mondiale.  Roberto Rapaccini