I
gravi fatti di Gerusalemme purtroppo non erano imprevedibili, ma questo non
significa che ci si debba rassegnare all’impossibilità di un futuro di pace per
la capitale della spiritualità monoteista. La repressione della polizia
israeliana nei confronti delle rivendicazioni palestinesi, in particolare sulla
Spianata delle Moschee, è stata di eccezionale e inaccettabile durezza. Anche
se gli scontri attuali riguardano pure altre aree del Paese il problema
centrale è Gerusalemme: di chi è la città? Di chi sono le case, si chiede la
brillante giornalista–analista Paola Caridi, esperta di Medioriente?
Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente
diversa. Ha un milione di abitanti di cui 300.000 palestinesi, che non sono
semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata
all’impossibilità di vivere la loro città. D’altra parte, i coloni ebrei
rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello
Stato di Israele. Ma i Palestinesi, come profughi, erano stati legittimi
assegnatari di quelle case. Si comprende come la questione originariamente non
era solo politica. Ora il contenzioso si è radicalizzato su
posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. È anche sbagliato
considerare questo uno scontro un conflitto fra ebrei e palestinesi, perché
molti ebrei condannano e si dissociano dalla politica ‘dei
coloni’. La recrudescenza di questi scontri si colloca anche in un
momento di crisi di rilevanza della questione palestinese, non più al centro
degli equilibri geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale, alcune
monarchie del Golfo in particolare, cercano di prendere le distanze dalla
questione palestinese, sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini
estremamente cauti, ed esplorano le possibilità di una normalizzazione dei
rapporti con Israele. Gli accordi di Abramo sono la punta avanzata di questa
istanza. La destra israeliana in questo momento è estremamente debole, non
potendo più contare su un deciso sostegno americano; non ha una base elettorale
sufficientemente solida per governare ed è incapace di considerare soluzioni
alternative alla vessazione ed alla repressione dei palestinesi. Anche la
leadership palestinese ha le sue gravi colpe. Con le sue divisioni ha
dimostrato l’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’ e di accreditarsi
come credibile e forte interlocutore politico, concentrandosi esclusivamente
nella lotta ad Israele con tutti i mezzi. Ormai nessuna delle due parti crede
nella possibilità di due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese.
Anzi questa prospettiva sembra essere un alibi per non esplorare altre vie.
Ritorna l’attualità del saggio (2017) di Aharon Bregman, scrittore e
giornalista israeliano, nel quale la brillante vittoria militare di Israele
nella decisiva ‘Guerra dei Sei Giorni’ del 1967 venne acutamente definita
‘maledetta’. A seguito degli esiti del conflitto Israele, com’è noto, occupò la
penisola del Sinai e la Striscia di Gaza, fino a quel momento territori egiziani,
la Cisgiordania e Gerusalemme Est appartenenti alla Giordania, le ‘siriane’
alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione e
alla condizione giuridica dei territori occupati, e quelle causate dalla
riluttanza di Israele alla restituzione dei territori conquistati e dalla
politica di insediamento coloniale. Come precisa Bregman, gli esiti della
Guerra dei Sei Giorni furono un punto di svolta nella percezione della
principale questione mediorientale: gli israeliani da vittime accerchiate da
minacciose potenze arabe si mostrarono potenti occupanti. Conseguentemente quei
drammatici eventi rivelarono che Israele era un ‘Golia’ piuttosto più che un
piccolo ‘Davide’: la diffusa istintiva simpatia di parte del mondo occidentale
cessò di essere saldamente dalla parte degli israeliani, vittime dell’olocausto
nazista e di uno strisciante e mai sopito ricorrente antisemitismo, e cominciò
a spostarsi verso le nuove vittime, ovvero gli arabi, principalmente i
palestinesi, che avevano subito l’occupazione militare. Per questo il trionfo
del 1967 finì per trasformarsi per Israele in una ‘vittoria maledetta’. La
storia successiva è la sequenza di tante opportunità per risolvere questo
drammatico conflitto, sprecate a causa della rigidità dei governi israeliani e
a causa delle divisioni fra i palestinesi, guidati da una leadership politica
litigiosa e poco lungimirante. Tutto questo ha portato alla situazione attuale.
Sullo sfondo, come già detto, la questione israelo-palestinese ha perso la sua centralità
nella geopolitica internazionale. Forse dietro questa recrudescenza c’è un
inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro
dell’attenzione mondiale. Roberto Rapaccini