RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

sabato 3 giugno 2023

GERUSALEMME: EBREI, PALESTINESI e L'ASSENZA DELLA POLITICA INTERNAZIONALE (7.7.2021)

Gerusalemme continua ad occupare una posizione centrale nel conflitto fra Israele e Palestina. Peraltro, la città è considerata come capitale dei propri territori sia dagli Ebrei che dai Palestinesi. Gli Ebrei argomentano le loro pretese ricordando che Gerusalemme, oltre ad essere stata la più importante città dell’antico Regno di Giuda, era la sede del Tempio Santo, uno dei luoghi maggiormente sacri per l’Ebraismo. I Palestinesi rivendicano invece di aver abitato Gerusalemme in maniera esclusiva per secoli. Oggetto di controversie è soprattutto la parte orientale della città, nella quale sono ubicati il Muro del Pianto, la Moschea di Al-Aqsa, la Basilica del Santo Sepolcro, ovvero alcuni fra i principali luoghi di culto delle tre religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo, Islam). Prendendo atto del carattere irrisolto delle controversie su questa città ‘santa’, le organizzazioni internazionali e la maggior parte dei Paesi occidentali hanno aperto le proprie rappresentanze diplomatiche a Tel Aviv, considerandola effettiva capitale di Israele. Nemmeno con gli accordi di Oslo del 1993 – che hanno istituito un’Autorità palestinese con il compito di governare con una limitata autonomia alcune parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza – è stata raggiunta un’intesa sullo status di Gerusalemme. Nel mese di maggio di quest’anno Gerusalemme è stata afflitta da gravi disordini che si sono successivamente estesi in altre zone sensibili del Paese. L’opinione pubblica filogovernativa ha cercato di minimizzare gli scontri, accreditando, come motivazione dei contrasti, dispute di carattere meramente immobiliare. Le ostilità sono infatti seguite a provvedimenti giudiziari di sfratto di cui sono stati destinatari nuclei familiari palestinesi che, fuggiti o cacciati dalle loro case di Gerusalemme Ovest, si erano trasferiti a Gerusalemme Est (in particolare nel quartiere di Sheikh Jarrah), cioè nella parte della città passata sotto il controllo giordano alla conclusione del conflitto arabo-israeliano nel 1949; infatti con il relativo armistizio si stabilì che ad Israele sarebbe spettata la parte ovest di Gerusalemme (con conseguente diaspora dei Palestinesi), mentre la Giordania – che durante la guerra aveva occupato parte di Gerusalemme e dell’odierna Cisgiordania – avrebbe assunto il controllo della parte est della città, nella quale conseguentemente affluirono molti profughi palestinesi ai quali le autorità giordane occupanti assegnarono gli immobili abbandonati dagli Ebrei migrati a Gerusalemme Ovest, cioè nella zona sotto il controllo israeliano. La situazione cambiò nel 1967 alla fine della Guerra dei sei giorni: Israele estese la sua sovranità anche su Gerusalemme Est e considerò quindi illegittimi i provvedimenti adottati dalle autorità giordane durante la loro occupazione, tra i quali le assegnazioni di abitazioni ai palestinesi. Pertanto, dopo più di 160 anni di pacifico possesso, le case assegnate e abitate dai Palestinesi a Gerusalemme Est sono state reclamate in sede giudiziaria da israeliani che hanno affermato di esserne i proprietari prima dell’occupazione giordana del 1948. La questione va oltre la disputa legale ed assume contenuti discriminatori in quanto lo stesso analogo diritto non viene riconosciuto ai Palestinesi che a seguito della guerra del 1948 hanno abbandonato immobili a Gerusalemme Ovest, assegnati successivamente a famiglie israeliane. La repressione della polizia israeliana nei confronti delle turbative del maggio scorso - in particolare di quelle sulla Spianata delle Moschee – è stata di eccezionale durezza. Anche se il conflitto si è poi esteso in altre aree del Paese il problema principale è quello di definire lo status di Gerusalemme: a chi appartiene la città? Di chi sono le abitazioni? Le possibili diverse risposte a queste domande evidenziano che Gerusalemme è una città che può essere narrata in maniera completamente diversa in relazione a differenti orientamenti politici e religiosi. Gerusalemme ha quasi un milione di abitanti di cui trecentomila palestinesi che non sono semplici immigrati ma sono nati in quella terra. La loro protesta è correlata al convincimento di non poter vivere la loro città. In sintesi, alle pretese dei coloni ebrei che rivendicano la proprietà di case risalente a prima della costituzione dello Stato di Israele si oppongono i Palestinesi che affermano che i loro diritti sulle abitazioni abbandonate si fondano su legittimi provvedimenti di assegnazione. Il contenzioso si è radicalizzato su posizioni ideologiche e confessionali di difficile composizione. Non è corretto ritenere che gli scontri siano il corollario di un conflitto frontale fra le due etnie, quella ebrea e quella arabo-palestinese, in quanto molti ebrei condannano e si dissociano dalla politica israeliana di occupazione coloniale. Questa recrudescenza di violenze e di ostilità si colloca in un momento in cui la rilevanza della questione palestinese non è più al centro degli equilibri geopolitici mondiali. I Paesi arabi in generale – e alcune monarchie del Golfo in particolare – cercano di prendere le distanze dalla questione palestinese, sulla quale rispetto al passato si esprimono in termini estremamente cauti per non compromettere le aspirazioni ad una moderata normalizzazione dei rapporti con Israele. La punta avanzata di questo atteggiamento sono gli Accordi di Abramo, una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, raggiunta il 13 agosto 2020, che ha prospettato una prima cauta normalizzazione delle relazioni fra Israele e i menzionati Paesi arabi. Queste novità si collocano in un momento in cui la destra israeliana sta attraversando un momento di crisi, causato principalmente dal venir meno del precedente deciso sostegno americano, non confermato dalla nuova presidenza statunitense. Attualmente nessuna compagine politica dispone di una base elettorale sufficientemente solida per poter governare con un apprezzabile consenso. Purtroppo, permane l’incapacità di individuare valide soluzioni condivise della questione palestinese. Anche la leadership palestinese sta evidenziando gravi criticità. La sua credibilità come interlocutore politico è compromessa dalle note e condizionanti divisioni interne e dall’incapacità di gestire il braccio armato ‘Hamas’. Sembra definitivamente tramontata la prospettiva dell’istituzione di due Stati liberi e indipendenti, di cui uno palestinese. Né Ebrei né Palestinesi ci credono. Anzi questa ipotesi sembra essere divenuta solo un alibi per non esplorare altre vie o altri possibili compromessi. La difficoltà a trovare soluzioni alle criticità di Gerusalemme probabilmente risente degli esiti della Guerra dei sei giorni’: la vittoria militare di Israele in questo conflitto fu acutamente definita ‘maledetta’ in un saggio del 2017 dello scrittore e giornalista israeliano Aharon Bregman. Nell’occasione, com’è noto, Israele occupò la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza (fino a quel momento territori egiziani), la Cisgiordania e Gerusalemme Est (appartenenti alla Giordania), e le ‘siriane’ alture del Golan. Ne seguirono le gravi turbolenze relative alla gestione della condizione giuridica dei territori occupati, correlate alla riluttanza del governo israeliano a restituire i territori conquistati e causate dalla politica di insediamento coloniale. Come ha precisato Bregman, gli esiti della Guerra dei sei giorni furono un punto di svolta nella percezione della questione palestinese: gli israeliani da vittime accerchiate da minacciose potenze arabe si rivelarono potenti occupanti. L’istintiva simpatia del mondo occidentale cessò di essere unilateralmente dalla parte degli israeliani, bersaglio della criminale e folle violenza nazista, e di un ricorrente antisemitismo, e cominciò a spostarsi verso le nuove vittime, cioè i palestinesi penalizzati da una iniqua politica di occupazione militare. Questo è l’amaro presupposto della drammatica e complessa situazione attuale. L’emergenza terroristica di matrice jihadista di questi ultimi anni ha fatto però perdere alla questione palestinese la sua centralità nella geopolitica mondiale. A questo si aggiunge un nuovo atteggiamento di molti stati arabi che, pur rimanendo ideologicamente contrapposti all’Occidente, sono sempre più interessati ad essere protagonisti dell’economia globale. Conseguentemente molti Stati arabi tendono a considerare i problematici precari equilibri mediorientali questioni interne di Israele, evitando così che le vicende palestinesi possano interferire con le loro caute ‘aperture’ verso Israele e verso il mondo occidentale. In questa prospettiva possono essere considerati gli Accordi di Abramo, che, a seguito dell’intesa raggiunta il 13 agosto 2020, si sono conclusi con una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Stati Uniti, che ha prospettato una prima e moderata normalizzazione delle relazioni fra Israele e i menzionati Paesi arabi. Le violenze del maggio scorso potrebbero quindi essere anche un inconsapevole disperato tentativo di porre il Medioriente di nuovo al centro dell’attenzione mondiale, al fine di ripristinare le condizioni per uno sforzo dei maggiori protagonisti degli equilibri internazionali per la ricerca di compromessi che siano la premessa di un futuro di pace. In proposito Gerusalemme potrebbe assumere la natura neutra di luogo franco nel quale ebrei, arabi e cristiani possano avere pari diritti in una condizione di reciproca tolleranza e di reciproco riconoscimento. Roberto Rapaccini