Ho letto recentemente con molto interesse il saggio 'Lettera ai truffatori
dell'islamofobia' di Stephane Charbonnier, detto Charb, l'ex direttore
del giornale satirico Charlie Hebdo, trucidato insieme ad una decina di
collaboratori nell'attentato terroristico di matrice jihadista il
7 gennaio 2015. Lo scritto assume il senso di un testamento intellettuale, in
quanto è stato chiuso per la stampa il 5 gennaio scorso,
ovvero due giorni prima della tragica uccisione dell'autore. Il libro si
articola su due direttive che sono strettamente connesse: da una parte viene
elaborata una acuta revisione critica del concetto di lotta all'islamofobia,
dall'altra viene esposta la filosofia che aveva ispirato fino ad allora le
scelte satiriche del giornale.
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L’Islamofobia, nel senso di infondato timore dell’Occidente nei confronti dei
musulmani e dell’Islam, è una patologia della nostra società che si è
sviluppata di recente; in particolare è cresciuta negli ultimi decenni e si è
intensificata dopo l’attentato a New York dell’11 settembre 2001. Paradossalmente
- come osserva Charb - la lotta all'islamofobia può generare un razzismo 'di
ritorno' causato da una iperprotezione degli islamici rispetto ad altri
individui. La lotta all’islamofobia, infatti, condanna qualsiasi
aggressione solo nei confronti dei musulmani in quanto tali, e dei loro simboli
religiosi. Mi spiego meglio con un esempio. La condanna di chi insulta una
donna abbigliata secondo l'usanza musulmana non ha come presupposto l'attentato
alla libertà di una cittadina straniera di vestirsi - nei limiti
consentiti dalla legge - come meglio ritenga, ma è imposta esclusivamente dalla
protezione degli usi islamici. In altri termini, in questo caso la tutela
non ha come condizione necessaria e sufficiente l'essere destinatario/a di
diritti di libertà, ma si fonda sulla confessione religiosa praticata dal
soggetto che subisce l'offesa. In proposito Charb polemicamente osserva “…tra
non molto le vittime del razzismo di origini indiane, asiatiche, rom, africane,
antillane, eccetera, faranno meglio a trovarsi una religione se ci tengono ad
essere difese...". Charb sembra pertanto concludere che sarebbe più
opportuno e più giusto eliminare la categoria della lotta all'islamofobia ed
includerla in quella più generale della lotta al razzismo, ovvero nel contrasto
a qualsiasi forma di pregiudizio. Al contrario la lotta all'Islamofobia crea
una specifica categoria protetta, e quindi nella sostanza è essa stessa
paradossalmente fonte di discriminazione. In proposito, la satira irriguardosa
di Charlie Hebdo nei confronti della religione musulmana non tenendo conto
della specifica pericolosità della suscettibilità degli islamici sarebbe
il corollario di questo punto di vista.
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Charb precisa che la satira nei confronti degli islamici in realtà vuole
colpire solo il fondamentalismo, opponendosi a quella visione che
riconduce tutto l'Islam all'accezione integralista. Al riguardo, la celebre
vignetta che raffigurava Maometto con un turbante a forma di bomba, non
intendeva insultare tutti i musulmani suggerendo di vedere in essi dei
potenziali terroristi, ma era un modo per denunciare la strumentalizzazione
della religione da parte dei jihadisti. La polemica che ne è
scaturita è stata enfatizzata dal circuito mediatico, da ognuno per propri
fini. Charb si chiede in virtù di quale teoria l’umorismo, che colpisce altre
religioni, dovrebbe essere incompatibile con l’Islam.
Il
linguaggio virulento, sfacciato talvolta insultante di Charlie Hebdo - da
questo punto di vista la satira si distingue dalla critica che, anche quando è
negativa, dovrebbe rimanere lucida e priva di eccessi - sembra far
proprio il principio più volte affermato da Dario Fò secondo cui la prima
regola della satira è che non ci sono regole. In proposito personalmente non
sono d'accordo. Credo che la satira non possa mai essere offesa gratuita,
soprattutto quando tratta materie che possono essere oggetto di particolare
sensibilità, come la religione. Nella pratica naturalmente non è facile
stabilirne i confini. Peraltro, nella nostra società i media digitali
consentono una notevole amplificazione di qualsiasi messaggio, e pertanto si
deve tener presente nella questione anche l'eventuale allargamento delle
possibili vittime destinatarie di un atto di satira. Roberto
Rapaccini