CONOSCENZA E INFORMAZIONE - FIGURE RETORICHE CHE TRASFORMANO IL GIORNALISMO DI INFORMAZIONE IN GIORNALISMO DI OPINIONE (29.7.2022)
Esplorando
le difficoltà della stampa di produrre un’informazione esaustiva e imparziale,
può essere utile una rilettura a distanza di tempo della storica sentenza della
Prima Sezione Civile della Cassazione del 18 ottobre 1984 n. 5259 sui limiti al
diritto di cronaca, nota enfaticamente come ‘decalogo della Stampa’. La
sentenza si proponeva di fornire ai giornalisti alcuni riferimenti giuridici e
deontologici finalizzati ad evitare che la pubblicazione di notizie potesse
causare a soggetti coinvolti a vario titolo nelle notizie stesse danni non
giustificati da un corretto esercizio del diritto di cronaca. La capacità
di informare capillarmente propria dei mezzi radiotelevisivi e digitali e - per
quanto concerne le pubblicazioni a mezzo internet - la permanenza della
notizia sul web, rendono possibile che un soggetto possa avere una compromissione
della propria reputazione per un lungo tempo, anche sulla base di notizie
inesatte o comunque irrilevanti, con inevitabili ripercussioni sulla sua vita
sociale. Dottrina e Giurisprudenza, affrontando la materia, hanno cercato di
individuare il miglior bilanciamento tra il diritto all’onore – inserito nella
più ampia categoria dei diritti della personalità – ed il diritto di cronaca,
corollario della libertà di stampa di cui all’art. 21 Cost. La Cassazione nella
menzionata sentenza precisò che il diritto di critica è legittimamente
esercitato solo se viene espresso in forma civile. In proposito, la forma della
critica non è civile non soltanto quando è eccedente rispetto allo scopo
informativo, o difetta di serenità e di obiettività, o calpesta quel minimo di
dignità cui ogni persona ha sempre diritto, ma anche quando non è improntata a
leale chiarezza. Il difetto di chiarezza sussiste quando il giornalista, per
sottrarsi alle responsabilità che potrebbero seguire da affermazioni
palesemente espresse, ricorre a espedienti subdoli per ingenerare nel lettore
convinzioni da lui non esplicitate. Uno di questi espedienti sono i cosiddetti
sottointesi sapienti: possono consistere nel racchiudere determinate parole tra
virgolette o nel ricorrere a eufemismi allo scopo di far intendere che quanto
detto non va interpretato in senso letterale, ma in ben altro modo, o
addirittura in senso contrario rispetto al significato apparente della frase.
Gli accostamenti suggestionanti consistono invece nell’associare ad uno scritto
(anche solo con la vicinanza nella pagina) elementi estranei all’articolo che
tuttavia evocano suggestioni denigratorie (ad esempio, affiancando all’articolo
la foto di un personaggio di cattiva reputazione che non c’entra con quel
contesto; o nel fare affermazioni generali o generiche tipo ‘la corruzione è un
vizio diffuso’, inducendo il lettore a collegarle con le persone che si
vogliono mettere in cattiva luce). Oppure, per suggestionare il lettore, si può
ricorrere ad un tono sproporzionatamente scandalizzato e sdegnato nel testo e
nei titoli, o all’impiego ‘arbitrario’ di aggettivi e punti esclamativi. Oltre
al tono ironico viene censurata la mezza verità: la verità incompleta è
equiparata ad una falsità. Analogamente possono essere riportate notizie
‘neutre’ drammatizzandole artificiosamente. Non è raro il caso che si ricorra
ad insinuazioni diffamanti mediante l’uso della locuzione ‘non si può escludere
che...’ o simili. La sentenza, come si può immaginare, non venne recepita
positivamente dal mondo giornalistico, che la considerò una limitazione della
libertà di informazione e un attacco alla libertà di stampa. È interessante
notare come attraverso queste ‘figure retoriche’ si possa fare giornalismo di
opinione – cioè si possano esprimere giudizi di merito e di valore – mentre
apparentemente si riferiscono solo fatti, e quindi a prima vista si faccia
giornalismo di informazione. RR
Sezione
I civile; sentenza 18 ottobre 1984, n. 5259 (clicca)