I recenti gravi fatti di Bruxelles hanno tragicamente reso di nuovo
attuale la questione del terrorismo suicida. Com'è noto, l’attività
terroristica determina una situazione di guerra definita asimmetrica per
sottolineare il suo carattere non convenzionale, in quanto in essa non si
contrappongono due eserciti, espressione di realtà nazionali, strutturati in
forma rigidamente piramidale, che si avvalgono di armamenti e mezzi bellici
tradizionali. I movimenti terroristici infatti diversamente dalle forze armate
di uno Stato, sono organizzazioni clandestine, che per i loro fini ricorrono
anche a iniziative – come dirottamenti, attentati, omicidi, stragi, rapimenti,
sabotaggi – che in genere non si riscontrano comunemente in contingenze
belliche ordinarie. Il terrorismo di matrice islamica, oltre ai mezzi appena
menzionati, utilizza un’arma che è di grande efficacia nel diffondere terrore
in maniera indiscriminata in virtù della sua imprevedibilità e della difficoltà
a contrastarne gli effetti: si tratta dell’impiego di individui imbottiti di
esplosivo che si fanno detonare presso un obiettivo sensibile - come la
stazione della metro di Maalbeek o l'aeroporto di Zaventem a Bruxelles -
causando gravi danni alla comunità civile. Il fenomeno del terrorismo suicida
viene considerato analogo a quello dei kamikaze, i piloti giapponesi
(prevalentemente di aerei), che durante la Seconda Guerra Mondiale procuravano
ingenti perdite ai nemici attraverso l’esplosione del proprio mezzo. I kamikaze
giapponesi erano motivati da un forte sentimento patriottico: l’appartenenza
allo Stato nipponico radicava in loro il dovere etico di difendere la comunità
dei connazionali con ogni mezzo, anche estremo come il sacrificio della vita.
Peraltro questa condotta, oltre ad arrecare onore e prestigio alla propria famiglia,
era una via che per l’alto valore morale si riteneva conducesse alla pace
eterna. I kamikaze erano parte integrante dell’esercito regolare giapponese e
operavano nel contesto di una guerra convenzionale; corollario del carattere
segnatamente bellico delle loro iniziative era la volontà di progettare queste
azioni in maniera da evitare che nell’esplosione venissero coinvolti obiettivi
civili. Premessi questi aspetti, non sembra che ci siano molti punti di
contatto fra il suicidio dei kamikaze e il sacrificio dei terroristi
fondamentalisti. Gli atti suicidi con finalità terroristiche sono generalmente
considerati monopolio della cultura religiosa, in particolare islamica. Infatti
siamo abituati a ritenere che i fedeli islamici siano più versati al martirio e
al sacrificio della propria vita rispetto agli appartenenti ad altre religioni
o culture. Tuttavia, in epoca moderna gli attentati suicidi per la prima volta
sono stati attuati da terroristi di estrazione laica, ovvero le Tigri Tamil
operanti in India. È controversa la relazione fra il sacrificio della vita in
nome dell’Islam e i conseguenti privilegi che garantirebbe Allah in Paradiso.
In proposito il Corano considera la vita sempre sacra e inviolabile e pertanto
in linea di massima non giudica lecita nessuna forma di suicidio. Tuttavia il
Corano obbliga i fedeli al cosiddetto 'Jihad difensivo': ogni musulmano ha il
dovere di difendere le terre dell’Islam dall’attacco di infedeli o liberarle
dalla loro presenza. Uno studioso americano, Robert Pape, analizzando gli
attacchi suicidi relativamente a decenni recenti ha rilevato empiricamente che
il loro incremento esponenziale non è causato dalla crescita del
fondamentalismo religioso o dall’acuirsi di contingenze socio-economiche, ma è
correlato alla percezione dei terroristi islamici che il proprio Stato si trovi
in una condizione di occupazione o di dipendenza militare o anche soltanto
ideologica da parte di una potenza straniera. In proposito, per occupazione non
si deve intendere soltanto l’insediamento straniero in un territorio, ma anche
la semplice presenza di una potenza occidentale che intende interferire con la
cultura locale o imporre la propria. Questa condizione di asservimento è
avvertita come una situazione in grado di snaturare la società islamica; per
questo genera nel fedele il dovere di attivarsi per contrastare questo
pericolo, supposto o reale. Si è anche rilevato che spesso la nazionalità dei
terroristi suicidi è quella di un Paese che ospita truppe provenienti da Paesi
occidentali come, ad esempio, l’Arabia Saudita. Quindi si è dedotto
empiricamente che l’iniziativa suicida sembra essere una reazione (piuttosto che
un’azione) strumentale alla difesa della terra dell'Islam; conformemente
all'istituto del 'Jihad difensivo' prescritto dal Corano, la consapevolezza
dell’occupazione del proprio territorio nazionale richiede al fedele di
attivarsi. Analogamente si è anche riscontrato che, quando l’atto è compiuto
dal terrorista al di fuori del territorio di nascita o provenienza, la nazionalità
del terrorista è in linea di massima quella di un Paese il cui territorio è
oggetto di presenza o di attacco da parte di un Paese occidentale. Si tratta di
rilevamenti statistici ed empirici che tuttavia forniscono indicazioni sulle
motivazioni consapevoli o inconsapevoli di questi atti. Allo studioso
americano Robert Pape va pertanto il merito di aver inserito l’atto suicida nell’ambito
di una logica strategica. Un interessante contributo alla comprensione di
questo fenomeno è fornita dal film palestinese 'Paradise Now' di Hany
Abu-Assad, nel quale vengono esposte in dettaglio le vicende di due giovani che
sono scelti dalla comunità per compiere un attentato suicida. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
martedì 16 febbraio 2021
LA MAPPA DEL TERRORISMO ISLAMICO - 3. LA COMUNE STRATEGIA DEGLI ATTENTATI SUICIDI (26-3-2016)
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