Come si è detto in un precedente post, lo scambio di informazioni in materia di terrorismo in ambito comunitario - di cui si parla molto in questi giorni come punto critico della cooperazione di polizia - seppur previsto e codificato in numerosi documenti, presenta profili molto problematici nella sua attuazione concreta che ne limitano fortemente l'efficacia. Si è detto che i limiti dello scambio di notizie sensibili 'a distanza' fra organi collaterali di 'intelligence' di diversi Paesi può essere superato attraverso esperienze operative comuni, ovvero mediante il coinvolgimento diretto di operatori di polizia in una medesima specifica attività investigativa. Lavorare insieme, infatti, facilita la conoscenza e conseguentemente accresce quella fiducia reciproca che consente di superare le remore e i timori di una asettica e formale cooperazione 'a distanza'. In proposito, a conferma che la collaborazione fra le forze di polizia dei Paesi europei piuttosto che di nuovi strumenti ha necessità di una implementazione di quelli già esistenti, in questo ambito è previsto uno strumento che prevede questo tipo di esperienza operativa. Si tratta delle squadre investigative comuni (joint investigation teams). Le squadre investigative comuni sono state originariamente previste da una decisione quadro del Consiglio dell'Unione Europea del 2002. L'Atto stabilisce che, al fine di condurre indagini che esigono un'azione coordinata e concertata negli Stati membri in ambiti specifici, due o più Stati possono costituire per una durata limitata, delle squadre investigative, composte da autorità giudiziarie e/o di polizia. Gli Stati membri interessati sono responsabili della composizione, delle finalità e della durata del mandato della squadra investigativa, che può avvalersi della collaborazione di rappresentanti di Europol, di Olaf o di Stati terzi. Le squadre, sebbene ipotizzate per contrastare una lunga serie di reati, sono particolarmente idonee a combattere il terrorismo, il traffico di stupefacenti, la tratta di esseri umani. Nel 2011 il Consiglio dell'Unione Europea ha aggiornato un manuale che ha come obiettivo quello di informare gli operatori circa le basi giuridiche, i requisiti per la costituzione di questi team, e di dare indicazioni sulle occasioni in cui può essere proficuo avvalersene (Il Manuale può essere consultato a questo indirizzo - http://www.statewatch.org/news/2011/nov/eu-council-jit-manual-15790-rev1-11.pdf). Le squadre investigative comuni apportano un altro valore aggiunto. In precedenza nella repressione transnazionale dei reati è stata riscontrata anche questa difficoltà: la cooperazione internazionale ha sempre coinvolto principalmente le forze di polizia (si pensi in particolare ad Europol e a Interpol). Conseguentemente queste attività investigative non sempre si sono coordinate con le iniziative degli apparati giudiziari nazionali; questo 'scollamento' generalmente può produrre da un punto di vista pratico ripercussioni negative nella repressione degli illeciti, in quanto spesso gli apparati giudiziari, destinatari finali delle risultanze investigative, non se ne sono potuti avvalere positivamente. Le squadre investigative invece possono avere in sé sia la componente più prettamente investigativa ed operativa che quella giudiziaria, cosicché le forze di polizia possono pienamente svolgere il ruolo di 'braccio' operativo di un'attività giudiziaria. Naturalmente anche una maggiore efficienza di Eurojust e una corretta applicazione del mandato di arresto europeo contribuiscono ad una reciproca integrazione fra le attività investigative (con valenza preventiva e repressiva) e quelle degli organi giudiziari chiamati soprattutto a facilitarne la finalizzazione pratica. Naturalmente questi strumenti potranno essere migliorati rendendoli maggiormente idonei all'obbiettivo di prevenire e reprimere il terrorismo. Ma l'implementazione degli istituti per aggiornarli al fine di renderli maggiormente adeguati agli scopi che si propongono è implicita in ogni decisione comunitaria. Roberto Rapaccini