Sono passati cinque anni dai moti di rivolta della Primavera araba, iniziati in Tunisia e in Egitto rispettivamente alla fine del 2010 e nei primi mesi del 2011, nel corso dei quali il diffuso malessere per delle società cristallizzate su posizioni antidemocratiche e caratterizzate da inaccettabili diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza aveva spinto migliaia di persone nelle piazze di alcune capitali arabe per richiedere la sostituzione dei regimi autoritari al potere con democrazie laiche. Prima di esaminare la situazione attuale a cinque anni da quegli eventi che animarono forti e diffuse aspettative di giustizia e di libertà, è utile premettere alcune considerazioni generali. La Primavera araba principalmente riguardò sei Stati: la Tunisia, l’Egitto, lo Yemen, il Bahrain, la Siria e la Libia. Anche in Marocco ci furono dimostrazioni, ma ebbero un carattere prevalentemente pacifico e portarono a cambiamenti costituzionali che introdussero forme di legittimità democratica. Nel corso della Primavera araba svolsero un ruolo importante i mass media, soprattutto la Rete. Tuttavia, mentre i giornali e le televisioni si mantennero espressione di poteri governativi, solo Internet sfuggì a ogni controllo: il Web fu l’unico strumento per la diffusione mediatica delle idee di cambiamento e la concreta organizzazione delle manifestazioni, il solo mezzo per assicurare all’interno e all’esterno dei rispettivi confini nazionali un’adeguata libertà di informazione. Il fondamentalismo religioso invece inizialmente non ebbe uno specifico ruolo; al contrario, in alcuni casi assunse una funzione di contenimento e di controllo delle istanze di rinnovamento, guidando morbidamente i sistemi politici verso una restaurazione delle condizioni politiche preesistenti, verso una neoislamizzazione che contribuì ad affermare regimi non particolarmente diversi da quelli precedenti. In questi moti mancarono anche quelle manifestazioni anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) emerse in precedenti rivoluzioni islamiche - come quella iraniana del 1979 - che avevano accreditato l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere in ogni occasione contrapposto all’Occidente. I manifestanti non potevano avere come modello su cui rifondare il nuovo Stato le democrazie occidentali, considerate corrotte e lontane da valori spirituali e religiosi. Le nuove istituzioni potevano ispirarsi solo ad una piena applicazione dei valori dell’Islam, gli unici che, ripristinati nella loro purezza, venivano considerati in grado di assicurare uno Stato perfetto, oltre che giusto. Pertanto la Primavera Araba, pur essendosi originata da movimenti laici, approdò - con l'unica eccezione della Tunisia - ad esiti integralisti, trasformandosi di fatto in una primavera islamica. Nella rifondazione di un nuovo Stato sono prioritari la formazione di un’assemblea costituente e l’indizione di libere elezioni. Tuttavia nei Paesi arabi nei quali si svolsero le consultazioni elettorali la democratizzazione rimase intrappolata in un circolo vizioso. Le elezioni infatti non sono il momento iniziale di una democrazia ma il suo punto di arrivo, in quanto il loro valido e libero svolgimento richiede un apparato democratico e una ben formata coscienza civica. La Primavera Araba contribuì - purtroppo solo momentaneamente - a ridimensionare il ruolo del terrorismo nel determinare le vicende locali e nazionali dei singoli Stati. In passato i cambiamenti di regime o le rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di gruppi eversivi in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Paesi; questo aveva consolidato nei popoli arabi la consapevolezza che essi potessero solo tollerare i propri governi, mentre soltanto l’attività terroristica poteva offrire prospettive concrete di cambiamento. La Primavera Araba, alimentando inizialmente forti aspettative, sembrò togliere al terrorismo il monopolio esclusivo nel sovvertire i regimi al potere. Purtroppo gli esiti deludenti della Primavera araba uniti alla nascita dello Stato Islamico e alla trasformazione di Al Qaeda, che, sebbene indebolita dai colpi inferti dalla guerra al terrorismo, si rigenerò attraverso la filiazione di tanti agguerriti movimenti regionali hanno ripristinato il triste ruolo centrale del terrorismo. Roberto Rapaccini