Nel 2011, dopo le proteste in Egitto e Tunisia, anche nello Yemen la
popolazione a causa della grave crisi economica e della corruzione del regime
scese nelle piazze della capitale Sanaa per spingere a dimettersi il presidente
Ali Abdullah Saleh, al potere da oltre 30 anni, che attraverso modifiche della
Costituzione stava cercando di trasformare il suo mandato in un incarico a
vita. Saleh dichiarò che avrebbe rinunciato sia alla rielezione o sia ad
abdicare in favore del figlio. Nonostante l'apparente disponibilità al dialogo,
iniziò una dura e sanguinosa repressione, che provocò dissensi ed una
spaccatura anche all'interno delle forze armate, che in parte solidarizzarono
con i manifestanti. Il Consiglio di Cooperazione del Golfo, l'organizzazione
internazionale regionale a cui aderiscono sei Stati del Golfo Persico, ovvero
il Bahrain, il Kuwait, l'Oman, il Qatar, l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi
Uniti, cercò di favorire una composizione della crisi attraverso un processo di
transizione verso soluzioni di compromesso. Nel giugno 2011 Saleh rimase
gravemente ferito in un attentato. I nuovi scontri lo costrinsero nel febbraio
del 2012 a passare la guida del Paese al suo vice Abdrabuh Mansour Hadi, che
formò un governo di unità nazionale. Nel frattempo si sviluppava e si
sovrappose alla crisi in atto anche un conflitto secessionista animato dagli
Houthi, un gruppo armato sciita zaydita (lo zaydismo è una variante della
confessione sciita) che agiva con l'appoggio politico e materiale dell'Iran,
che sosteneva questi ribelli non solo per motivi religiosi (cioè la comune
professione sciita) ma soprattutto al fine di conseguire, attraverso
l'influenza in un'area dello Yemen, una posizione privilegiata che gli
consentisse di gestire più direttamente i propri interessi nel continente
africano. Contro gli Houthi, e soprattutto contro l'antagonista iraniano, si
mobilitarono le monarchie del Golfo ed altri Paesi sunniti (segnatamente
l'Egitto, gli Emirati, il Qatar), guidati dall'Arabia Saudita. Al Qaeda
nella Penisola Araba (AQAP) approfittò del caos per gestire la propria
influenza nella zona. Così, la rivolta degli Houthi superò subito il suo
iniziale carattere limitatamente locale. All'inizio del 2015 i gravi disordini costrinsero
il presidente Abd Rabbu Mansour Hadi a dimissioni, respinte dal Parlamento, e
successivamente smentite, che furono solo formali, in quanto il suo governo
dimissionario continuò la resistenza contro i ribelli e continuò ad essere
considerato a livello internazionale la legittima autorità al potere. Nello
stesso tempo la coalizione degli Stati sunniti guidata dall'Arabia Saudita nel
marzo 2015 intraprese un massiccio attacco contro gli Houthi e contro obiettivi
civili sia mediante incursioni aeree e bombardamenti sia attraverso truppe di
terra. Permane una situazione caratterizzata da crimini di guerra commessi da
entrambe le fazioni in lotta, i ribelli sciiti (sostenuti dall’Iran e dagli
uomini dell’ex presidente Saleh) e il dimissionario resistente governo del
presidente Hadi (appoggiato da una coalizione sunnita a guida saudita, dagli
indipendentisti del sud e da varie tribù). Frange dello Stato Islamico
attaccano moschee sciite causando la morte di molte vittime civili. Anche
in questo Paese la Primavera araba non è approdata ad una democratizzazione
delle istituzioni governative. Roberto Rapaccini