RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

giovedì 19 novembre 2020

WOMEN OF HEZBOLLAH (23.12.2005)

Con riferimento all’ostilità dell’Islam nei confronti dell’Occidente si usa spesso il termine ‘Jihad’ (per analogia con la lingua araba si preferisce dare alla parola il genere maschile: pertanto si ritiene più corretto dire ‘il Jihad’, e non ‘la Jihad’). Il termine viene generalmente tradotto "guerra santa", intendendo con esso definire il ricorso collettivo alla violenza, previsto dal Corano, per la sottomissione degli “infedeli”. In realtà, il termine ‘Jihad’ nell’arabo standard significa genericamente “massimo sforzo”: il Corano, fra l’ampio spettro di significati della parola, privilegia con questo termine indicare la lotta interiore e individuale che il fedele sostiene in ogni momento della vita per adeguare la propria condotta ai precetti dei testi sacri. Le dispute terminologiche generate dal significato ambiguo, anche nella letteratura sacra, del termine ‘Jihad’ non hanno nessun valore da un punto di vista pratico. È più utile approfondire quali sentimenti generi il Jihad, o come venga vissuto nella militanza islamica. Un interessante contributo in tal senso è fornito dal film-documentario libanese ‘Women of Hezbollah’.  Il regista, Maher Abi-Samra, torna nel quartiere della sua giovinezza, Ramel el Ali, un sobborgo meridionale della città di Beirut. Il quartiere ha vissuto in maniera diretta la Guerra Civile Libanese (1975-1990): la povertà, le difficili condizioni di vita e il desiderio di riscatto sono stati un terreno fertile per l’ascesa della popolarità degli ‘Hezbollah’,  il Partito Islamico di Dio, composto prevalentemente da integralisti islamici Sciiti. Il film ‘Women  of Hezbollah’ ha come protagoniste due attiviste, Zeinab e Khadjie:  esplora le motivazioni, gli aspetti personali, sociali e politici della militanza islamica attraverso l’impegno femminile. Nel film viene utilizzata la tecnica dell’intervista: le due donne rievocano in maniera soggettiva gli eventi relativi alla guerra civile e all’ascesa del Partito Islamico di Dio, espressione di ‘Jihad’. Colpisce la fede di Zeinab, disposta con fierezza a perdere il marito nel caso si immolasse per l’Islam in un’azione suicida; Zeinab, con analoga agghiacciante freddezza, non solo accetta, ma incoraggia i propri figli a farsi anch’essi ‘shaid’ (martiri). Da alcune sequenze che si alternano agli stralci delle interviste  si mostra come i giovani libanesi vengano ‘educati’ fin da piccoli all’odio nei confronti di Israele. Khadjie, cresciuta nel sud del Libano, dominato dagli Sciiti, dice che quando era giovane era a conoscenza dell’esistenza di due sole realtà religiose: quella musulmana e quella ebraica. La comunità ebraica le veniva descritta in maniera oscura e terrificante.  Khadjie, dopo un matrimonio imposto e fallito nel quale ha avuto sei figli, ha trovato una grande motivazione esistenziale nella passione per l’impegno politico, a causa del quale ha dovuto subire un periodo di detenzione. Khadjie, essendo stata la prima donna ad essere imprigionata dagli israeliani, è divenuta rapidamente un ‘simbolo della resistenza’. Il film attraverso il vissuto delle due donne e alcune clip tratte dalla vita reale mostra cosa significhi in concreto ‘jihad’ per la militanza islamica. La condotta ed i sentimenti delle due donne evidenziano che essere strumento di Jihad significa disponibilità ad annullare se stessi e cieca accettazione del sacrificio di quanto si ha di più caro per la difesa o l’affermazione dell’Islam. Roberto Rapaccini