Ad alcuni mesi dall’inizio della cosiddetta “primavera araba” possono essere svolte alcune prime considerazioni. Innanzi tutto i moti di rivolta nei confronti di istituzioni statali, iniziati in Egitto e che si sono propagati con effetto domino in altri Stati (Tunisia, Libia, Siria, Yemen etc.) non sono stati originati da motivazioni religiose, ma hanno avuto un carattere spiccatamente laico. Hanno avuto un peso particolare i giovani che, utilizzando gli strumenti della moderna tecnologia in materia di comunicazioni di massa, hanno diffuso il malessere per una società cristallizzata su posizioni antidemocratiche e caratterizzata da una inaccettabile diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze nazionali. Il tanto temuto fondamentalismo religioso ha avuto per ora un ruolo marginale. L’esito di queste rivoluzioni rimane profondamente incerto, anche perché, a parte l’esigenza di una società più libera e più giusta, non appare individuabile un preciso modello al quale questi sommovimenti sembrano ispirarsi. In Egitto ci si avvia verso una normalizzazione. Cacciato Mubarak, il potere è ora nelle mani dei militari, garanti della transizione, e dei Fratelli Musulmani, vera anima islamica del Paese, mentre i giovani sembrano aver perso ogni partecipazione in questo processo di cambiamento. In Libia il conflitto ha assunto un carattere pericolosamente internazionale, anche in relazione ai molteplici interessi economici stranieri in quel territorio. Anche qui l’esito finale appare del tutto imprevedibile. Va considerato il ruolo che hanno avuto le cosiddette “tribù”. La Libia, come anche altri Stati arabi, non ha elaborato nel tempo una struttura amministrativa decentrata e quindi il potere centrale, per poter governare, deve garantirsi l’appoggio delle comunità stanziate su specifici territori. Da qui l’importanza che la fedeltà o l’infedeltà di queste tribù al Rais ha avuto nella determinazione della forza effettiva dei due schieramenti. Ancora più incerta appare la situazione in altri Stati del mondo arabo. Un’altra considerazione riguarda il concetto di “libertà” in queste realtà. I rivoltosi hanno spesso inneggiato a questo ideale. Tuttavia il concetto di libertà nella cultura araba è di recente elaborazione in quanto l’aspirazione massima di un popolo musulmano nella loro tradizione storica è la giustizia; l’uomo avverte come sia una necessità ineludibile quella di essere gestito da un potere superiore da cui però si pretende che ogni potestà sia ispirata dall’equità. In proposito può essere utile ricordare che la parola “Islam” in arabo significa “sottomissione”. Questa considerazione dovrebbe indurci a riflettere sulla prudenza che dovremmo usare nell’applicare al mondo arabo i nostri parametri. In proposito, noi occidentali vediamo con favore e come punto di partenza per la fondazione di una nuova realtà statuale l’indizione di libere elezioni. Ma le elezioni sono il punto finale e non quello iniziale di un processo di democratizzazione, in quanto richiedono solidi e articolati apparati governativi ed una matura coscienza civica. Queste osservazioni aprono un’ulteriore materia di discussione che è quella del rapporto fra realtà islamiche e democrazia. L’Islam è sicuramente compatibile con la democrazia, ma dobbiamo affrontare questo tema con una mentalità aperta, libera dalle visioni stereotipate dalla nostra storia. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
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