Ha
suscitato scalpore la decisione del presidente USA di riconoscere Gerusalemme
come capitale di Israele. Al di là delle ovvie reazioni di censura o di plauso
a seconda dei punti vista, è opportuno chiedersi come siano cambiati gli
equilibri geopolitici. Come primo effetto è montata una palese ostilità di
tutto il mondo arabo compatto nel manifestare la propria avversione:
conseguentemente gli Stati Uniti potrebbero avere la necessità di rivedere la
complessa politica nel Golfo, ovvero in concreto potrebbe essere opportuno
ridefinire l’equivoca alleanza con la monarchia saudita e ripensare i
controversi rapporti con l’Iran, che cerca di accrescere la sua influenza nella
regione mediorientale. La risoluzione non riguarda solo il Medio Oriente, ma si
riflette su un universo più grande, innanzitutto sull’intero cosmo islamico,
più di un miliardo di persone. C’è di positivo che la questione
palestinese – la relativa trattativa stava vivendo da anni un momento di stallo
- ha riacquistato centralità nell’agenda internazionale, un’importanza che
aveva perso a seguito delle vicende siriane. Trump ha cercato di ridimensionare
questo passo, affermando che dal 1995 il Congresso aveva impegnato il Governo a
compiere questo riconoscimento; temporeggiare per 20 anni non aveva avuto
effetti positivi. Il presidente USA, se da una parte ha voluto dare un segno
forte di appoggio ad Israele e alla politica di Netanyahu, nello stesso tempo
ha precisato che questo gesto non equivale all’abbandono dell’impegno
degli Stati Uniti per facilitare un durevole accordo di pace. Gli Usa restano
favorevoli alla soluzione ‘dei due Stati’ non escludendo che una parte di
Gerusalemme possa diventare la capitale palestinese. Anche se utopistico,
sarebbe auspicabile uno ‘status’ neutro di Gerusalemme considerata la sua
rilevanza per le tre religioni ‘del libro’ (ebraica, cristiana, musulmana). In
conclusione, a parte i disordini che ne sono seguiti, la portata della
decisione di Trump, dagli effetti ambigui, forse va ridimensionata. In questo
caso avrebbe ragione chi ritiene che la determinazione sia motivata dalla
necessità del governo americano di accreditarsi come imprescindibile attore
internazionale dopo l’insuccesso siriano. Roberto Rapaccini