Uno
dei temi più dibattuti quando si valuta la contrapposizione fra mondo
occidentale e Islam (pur considerato in tutte le sue varianti) riguarda
l’individuazione degli atteggiamenti e dei modi di pensare dominanti
all’interno delle società islamiche. Naturalmente devono essere tenute al di
fuori di questo scenario le manifestazioni del fondamentalismo violento che
alimentano le derive terroristiche: le relative notizie, come tutte le altre
che esulino dalla normalità, occupano ampio spazio nei mass media e
quindi influenzano in maniera non obiettiva i messaggi che emergono dal mondo
musulmano. Anche se non si aderisce alla visione dello scontro di civiltà fra
Islam e Occidente corollario delle tesi proposte dal politologo americano
Huntington[1],
è indubbio che il vasto, complesso e diversificato universo musulmano sia
caratterizzato da elementi di conflittualità con la società occidentale,
strutturata sulla tradizione illuminista in tema di laicità e di tutela di
libertà e diritti. Tanto premesso, ci si chiede se negli ambienti musulmani
prevalgano pensieri estremisti o la moderazione; in altri termini ci si domanda
in che cosa credano la maggioranza dei musulmani. Dai contesti islamici non
provengono segnali omogenei. È noto il vergognoso episodio avvenuto nel
novembre del 2015 prima della partita amichevole tra Turchia e Grecia in
occasione della quale una frangia di tifosi turchi presenti allo stadio di
Istanbul ha fischiato e urlato ‘Allah Akbar’ durante il minuto di silenzio
osservato per le vittime degli attentati di Parigi avvenuti qualche giorno
prima[2].
Nello stesso tempo in quei giorni però numerose comunità islamiche hanno
manifestato per condannare quella strage. Il nome delle
manifestazioni, Not in my name, derivava da una campagna lanciata
dopo l'attentato alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo[3]. Not
in my name equivaleva a dire: il mio Islam non è questo. Anche
nelle reazioni dopo i fatti dell’11 settembre 2001 sono emersi atteggiamenti
non univoci: in alcuni casi le comunità islamiche hanno preso le distanze da
questo grave atto, in altri si è assistito a una significativa
indifferenza o a veri e propri festeggiamenti in luoghi pubblici (i mass
media hanno diffuso immagini di gente in festa provenienti da
Gerusalemme Est, da Nablus e dal Libano): questi esternazioni hanno
fatto dubitare che l’Islam in concreto sia una religione di pace. Le maggiori
istituzioni islamiche hanno diffuso invece dichiarazioni di ferma condanna. A
questo quadro va aggiunta l’esistenza di una maggioranza silenziosa di
musulmani che integra le comunità che vivono in Europa. Premesso che ogni
situazione andrebbe valutata specificamente, rimane il dubbio circa la natura
di questo atteggiamento passivo, ovvero se l’assenza di reazione alla notizia
di fatti terroristici equivalga ad una reale dissociazione, o a una scelta di
convenienza dettata da esigenze pratiche di convivenza, o ad un tacito assenso.
Il combinato disposto delle politiche di integrazione con il monitoraggio dell’intelligence svolgono
una funzione importante al fine di evitare le suggestioni della
propaganda jihadista. In questo contesto va considerata
l’iniziativa delle istituzioni tedesche di creare nelle proprie università
delle facoltà di Teologia islamica per formare chi pronuncerà i sermoni nelle
moschee locali. Roberto Rapaccini
[1] Alla
tesi si oppone che l’Islam non può considerarsi un unico blocco essendo
caratterizzato da correnti religiose in profonda reciproca contrapposizione a
parte la summa divisio fra Sunniti e Sciiti.
[2] Avvenuto
il 13 novembre.
[3] Avvenuto
nel gennaio 2015.