RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

lunedì 30 novembre 2020

COSA PENSANO I MUSULMANI? CHI PUÒ PARLARE PER LORO? (1) (18-12-2017)

 

Uno dei temi più dibattuti quando si valuta la contrapposizione fra mondo occidentale e Islam (pur considerato in tutte le sue varianti) riguarda l’individuazione degli atteggiamenti e dei modi di pensare dominanti all’interno delle società islamiche. Naturalmente devono essere tenute al di fuori di questo scenario le manifestazioni del fondamentalismo violento che alimentano le derive terroristiche: le relative notizie, come tutte le altre che esulino dalla normalità, occupano ampio spazio nei mass media e quindi influenzano in maniera non obiettiva i messaggi che emergono dal mondo musulmano. Anche se non si aderisce alla visione dello scontro di civiltà fra Islam e Occidente corollario delle tesi proposte dal politologo americano Huntington[1], è indubbio che il vasto, complesso e diversificato universo musulmano sia caratterizzato da elementi di conflittualità con la società occidentale, strutturata sulla tradizione illuminista in tema di laicità e di tutela di libertà e diritti. Tanto premesso, ci si chiede se negli ambienti musulmani prevalgano pensieri estremisti o la moderazione; in altri termini ci si domanda in che cosa credano la maggioranza dei musulmani. Dai contesti islamici non provengono segnali omogenei. È noto il vergognoso episodio avvenuto nel novembre del 2015 prima della partita amichevole tra Turchia e Grecia in occasione della quale una frangia di tifosi turchi presenti allo stadio di Istanbul ha fischiato e urlato ‘Allah Akbar’ durante il minuto di silenzio osservato per le vittime degli attentati di Parigi avvenuti qualche giorno prima[2]. Nello stesso tempo in quei giorni però numerose comunità islamiche hanno manifestato per condannare quella strage. Il nome delle manifestazioni, Not in my name, derivava da una campagna lanciata dopo l'attentato alla redazione del settimanale francese Charlie Hebdo[3]. Not in my name equivaleva a dire: il mio Islam non è questo. Anche nelle reazioni dopo i fatti dell’11 settembre 2001 sono emersi atteggiamenti non univoci: in alcuni casi le comunità islamiche hanno preso le distanze da questo grave atto, in altri si è assistito a una significativa indifferenza o a veri e pro­pri festeggiamenti in luoghi pubblici (i mass media hanno diffuso immagini di gente in festa provenienti da Gerusalemme Est, da Nablus e dal Libano): questi  esternazioni hanno fatto dubitare che l’Islam in concreto sia una religione di pace. Le maggiori istituzioni islamiche hanno diffuso invece dichiarazioni di ferma condanna. A questo quadro va aggiunta l’esistenza di una maggioranza silenziosa di musulmani che integra le comunità che vivono in Europa. Premesso che ogni situazione andrebbe valutata specificamente, rimane il dubbio circa la natura di questo atteggiamento passivo, ovvero se l’assenza di reazione alla notizia di fatti terroristici equivalga ad una reale dissociazione, o a una scelta di convenienza dettata da esigenze pratiche di convivenza, o ad un tacito assenso. Il combinato disposto delle politiche di integrazione con il monitoraggio dell’intelligence svolgono una funzione importante al fine di evitare le suggestioni della propaganda jihadista. In questo contesto va considerata l’iniziativa delle istituzioni tedesche di creare nelle proprie università delle facoltà di Teologia islamica per formare chi pronuncerà i sermoni nelle moschee locali.  Roberto Rapaccini



[1] Alla tesi si oppone che l’Islam non può considerarsi un unico blocco essendo caratterizzato da correnti religiose in profonda reciproca contrapposizione a parte la summa divisio fra Sunniti e Sciiti.

[2] Avvenuto il 13 novembre.

[3] Avvenuto nel gennaio 2015.