Nonostante
le pressioni di gruppi islamisti, Asia Bibi, la contadina pakistana di fede
cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010, è stata graziata e
rilasciata dalla Corte Suprema del Pakistan. Il Presidente della Corte,
rassicurato dall’appoggio del Primo Ministro, non si è fatto condizionare
dal leader del partito fondamentalista di matrice sunnita
Tehreek-e-Labbaik, che aveva minacciato disordini in caso di sua scarcerazione.
In Pakistan, per penalizzare la minoranza cristiana, che conta cinque milioni
di fedeli costretti a vivere ai margini della società, si ricorre ad una iniqua
applicazione della legge sulla blasfemia, introdotta nel corso del processo di
islamizzazione imposto dal regime del Generale Zia ul Huaq (al potere dal
1977 al 1988). In molti Paesi islamici sono vigenti norme che puniscono la
blasfemia, sanzionata con la pena di morte non solo in Pakistan, ma anche in
Afghanistan, in Iran, in Nigeria, in Arabia Saudita e in Somalia. Il concetto
di blasfemia nel mondo islamico è ampio: per consumare il reato non è
necessaria un’espressione ingiuriosa o un’imprecazione, ma è sufficiente una
manifestazione di libero pensiero. In Pakistan il reato di blasfemia è previsto
dal codice penale. La fattispecie può essere facilmente strumentalizzabile; è
arbitrariamente applicata anche per risolvere questioni personali, dal momento
che l’onere della prova non compete all’accusatore ma all’accusato, che, per
non essere condannato, deve dimostrare l’insussistenza del fatto. Asia Bibi è
stata accusata di aver criticato Maometto. Si deve positivamente constatare che
alla felice conclusione della sua vicenda ha contribuito una mobilitazione
internazionale che si è concretizzata in convinte pressioni politiche e
mediatiche. Roberto Rapaccini