Premessa
La questione palestinese nel contesto
degli equilibri mediorientali è sempre al centro dell’attenzione mondiale. Siamo
ormai abituati a convivere con la convinzione che non sia possibile un accordo
che ponga fine alla contesa fra Israeliani e Palestinesi, una patologia
geopolitica che ormai è diventata fisiologica. Le attività di mediazione di
Paesi terzi o di organizzazioni internazionali si scontrano con la difficoltà
concreta di trovare soluzioni che abbiano le potenzialità per assicurare un
assetto equo dei rispettivi interessi.
Le due tesi
Da un punto di vista politicamente
neutro le motivazioni addotte dagli Israeliani e dai Palestinesi appaiono
ugualmente meritevoli di considerazione: da una parte gli Ebrei rivendicano la
regione dalla quale sono stati storicamente cacciati, dall’altra i Palestinesi
reclamano i territori che hanno perso a seguito della nascita di Israele. L’assetto
stabilito dalla Risoluzione dell’Onu n. 181 del 1947, denominata Piano di
partizione della Palestina[i], ebbe un’attuazione
solo parziale in quanto determinò esclusivamente la nascita di
Israele, i cui confini sono stati poi modificati dalle successive note vicende
belliche, che hanno generato una escalation senza ritorno: come disse
Shimon Peres con un’efficace metafora, con le uova si può fare una frittata, ma
dalla frittata non si può tornare alle uova[ii]. Si evince da quanto
premesso che questo conflitto non ha natura religiosa, come in qualche
occasione è stato erroneamente ritenuto, ma si fonda solo su pretese
territoriali che in concreto hanno (e continuano ad avere) come corollario la
gestione della difficile convivenza fra Arabi e Israeliani. Segnatamente vi è
incertezza sulle frontiere che dovrebbero delimitare i territori sotto la giurisdizione
di Israele e sullo status da conferire alla Palestina. Gli Israeliani
cercano di far prevalere le loro mire espansionistiche attraverso l’occupazione
di territori (con modalità militari o mediante insediamenti), mentre la
resistenza palestinese si avvale, come strumento di intimidazione, dell’azione
terroristica di gruppi armati. In proposito le opzioni strategiche dei leader
palestinesi sono state sempre più impegnate a danneggiare Israele piuttosto
che a porre positivamente le premesse per una reale indipendenza.
Il difficile
cammino verso una pace ‘giusta’
La comune
aspirazione ad una pace giusta sembra insidiata dalla difficoltà di fissare i
contenuti di una composizione degli interessi contrapposti ritenuta equa da
entrambe le etnie. Ragionando in termini pragmatici, che sia ritenuta giusta o
meno, l’unica soluzione possibile consiste nella coesistenza di due Stati, ovvero
nella creazione di uno Stato palestinese accanto a quello a maggioranza
ebraica: tuttavia, l’istituzione dello Stato palestinese impone ad Israele la
rinuncia ai territori occupati e a parte della giurisdizione su Gerusalemme (in
particolare sulla città vecchia e sulla spianata delle moschee). Non si tratta
di richieste che possano essere facilmente accettate dalle frange più
nazionaliste e conservatrici della società israeliana. La costituzione di uno
Stato palestinese - che ha come presupposto il ritiro di Israele dai territori
occupati – è anche nell’interesse dei cittadini israeliani, stanchi di vivere
perennemente sotto assedio e desiderosi di offrire un sereno futuro di pace ai
propri figli. Come è noto, i punti di vista delle due etnie sono molto distanti
circa le valutazioni relative alla creazione dello Stato palestinese. Questa è
sicuramente in concreto l’unica alternativa possibile ad una condizione di
eterna belligeranza. Ovviamente, intrapresa questa opzione, non sarà facile
fissare i contenuti dell’accordo. Come spesso accade in queste circostanze, uno
degli ostacoli con il quale dovranno misurarsi le rispettive diplomazie
consisterà nel far accettare i sacrifici imposti dalla composizione della
vertenza alla propria base popolare, sempre particolarmente attenta e
sensibile, anche in maniera irrazionale, a qualsiasi imposizione che comporti
una rinuncia di sovranità. In questo tipo di contingenze può essere più
difficile trovare un’intesa con la propria base popolare, piuttosto che con la
controparte. La realtà israeliana non è monoliticamente e aprioristicamente
antiaraba, come erroneamente si è tentati di ritenere, ma è caratterizzata da
diversificate componenti che si contrappongono in un animato, vivace e
articolato dibattito democratico. In proposito attualmente si nota una frattura
fra le istituzioni governative e la gente comune. Mentre alcune componenti
politiche persistono nel mantenere una linea rigida che rifiuta compromessi, la
maggior parte degli Israeliani è provata dalla precarietà. Si percepiscono
segnali, che provengono dalla società civile, che sono espressione del
desiderio di una pacifica convivenza interetnica e interreligiosa. Alcuni
esempi. A pochi chilometri da Abu Gosh, ritenuto il luogo nel quale 6000 anni
fa venne depositata l’Arca dell’Alleanza, e sulla via per Emmaus, il villaggio
in cui Cristo si rivelò dopo la Resurrezione, sta sorgendo Saxum, un centro
residenziale e multimediale, nel quale saranno ospitati fedeli di tutte le
religioni per una comune esperienza spirituale[iii]. È particolarmente
significativo che all’edificazione del centro partecipino, lavorando in armonia
fianco a fianco, Ebrei e Arabi, Musulmani e Cristiani. A pochi chilometri dal
muro che divide Gerusalemme da Betlemme si trova l’ospedale pediatrico ‘Caritas
Baby’, che ha accettato la sfida e l’impegno di curare tutti i bambini, senza
differenze fra Ebrei e Palestinesi[iv]. Potrebbe sembrare
normale prestare assistenza a malati non tenendo conto dell’appartenenza etnica
o religiosa, ma non lo è in questa terra dilaniata dall’odio. Le attività
sanitarie dell’ospedale, compreso il pagamento mensile dei salari, sono
sostenute dalla generosità di singoli cittadini e da quella di associazioni e
organizzazioni anche di altri Paesi. In questa prospettiva di pace sta
assumendo un’importanza centrale l’Associazione SISO (Save Israel - Stop the
Occupation).
Il movimento SISO
SISO è un
movimento di recente costituzione (è stato fondato nel 2015) che intende
favorire con mirate iniziative una soluzione negoziata del conflitto in Israele
fra Ebrei e Palestinesi. SISO afferma il carattere prioritario del ritiro di
Israele dai territori occupati ed auspica la costituzione di uno Stato
palestinese. Questa posizione, poiché potrebbe sembrare il corollario di un’opzione
filo-araba o filo-palestinese, è ancora minoritaria nell’ambito dell’opinione
pubblica israeliana. In realtà, gli obiettivi del movimento non sono motivati
da scelte di carattere politico, ma esclusivamente da una visione pragmatica
della situazione. I tempi sono maturi per il generale riconoscimento di Israele
da parte di tutta la comunità internazionale. La piena legittimità di Israele è
tuttavia condizionata dalle evoluzioni della questione palestinese, che
influiscono di fatto anche sulla normalizzazione della società civile
israeliana. Per questo il movimento SISO ritiene che l’unica soluzione concreta
in grado di porre fine alla controversia interetnica e territoriale sia la
costituzione di uno Stato indipendente che assicuri l’autodeterminazione del
popolo palestinese. Questa prospettiva sarebbe sia nell’interesse dei
Palestinesi, sia in quello degli Ebrei, che, come detto in precedenza,
finalmente potrebbero aspirare ad un futuro di pace in un contesto di
sicurezza, democrazia e prosperità. Inoltre questo nuovo assetto politico e
territoriale influirebbe positivamente sulla considerazione in ambito
internazionale di Israele, che, con il ritiro dai territori palestinesi,
sarebbe meno controversa. Il movimento - che si avvale del supporto anche di
molte personalità israeliane, dal mondo scientifico a quello della cultura -
intende articolare la propria azione su due direttive: oltre a promuovere
proprie iniziative mediante tutte le potenzialità mediatiche, si propone come
centro di coordinamento e di raccordo delle attività dei gruppi che operano per
gli stessi obiettivi, ovvero per una svolta pacifica del conflitto israelo -
palestinese. Recentemente il movimento SISO ha diffuso un appello di 500
personalità israeliane (intellettuali, politici, diplomatici, scienziati,
attivisti per la pace). Fra di essi vi sono gli scrittori David Grossman, Amos
Oz e Orly Castel Bloom, la cantante Noa, il regista Amos Gitai, gli
intellettuali Naomi Chazan e Daniel Bar Tal, l’ex-leader laburista ed
ex-generale Amram Mitzna, l’ex-deputata ed ex-vicesindaco di Tel Aviv Yael
Dayan, il Premio Nobel Daniel Kahneman. L’appello si rivolge agli Ebrei di
tutto il mondo affinché, solidarizzando con gli Israeliani, intraprendano
un’azione coordinata che ponga fine alla politica dell’occupazione dei
territori. L’appello va nella direzione opposta dei piani rigidi e
intransigenti del governo israeliano. L’approccio istituzionale alla questione
palestinese non coincide con il comune sentire della base popolare. Dai
sondaggi e dalle analisi della stampa che hanno preceduto le elezioni del 2009
dalle quali è emerso il successo del leader Netanyahu, si evince che la ‘non
prevista’ vittoria del Likud è stata motivata dal timore degli Israeliani per
le incertezze di un eventuale cambiamento della consolidata linea politica
piuttosto che da un reale convincimento circa l’opportunità di sostenere
desueti propositi conservatori. Naturalmente la realizzazione delle prospettive
di pace richiede la cooperazione dei Palestinesi, che devono uscire dal tunnel
dell’odio indiscriminato nei confronti di Israele. Le iniziative di SISO
stimolano un dibattito sul futuro di Israele libero da posizioni preconcette:
nell’incipit dell’appello di cui si è accennato in precedenza si legge ...se
ti interessa Israele, il silenzio non è più un’opzione. Secondo il punto di
vista del movimento SISO, come in passato la solidarietà degli Ebrei ha
consentito la nascita e lo sviluppo di uno Stato ebraico, oggi l’alleanza fra
gli Ebrei-israeliani e quelli della diaspora potrà costituire uno strumento
adeguato a consentire ad Israele di ritrovare la sua anima democratica,
riaffermare con coerenza i suoi fondamenti morali. Come ulteriore conseguenza
presumibilmente cesseranno i pregiudizi della comunità internazionale e avrà
termine l’impatto negativo sull’opinione pubblica interna e straniera,
alimentato dal perdurare del conflitto con i Palestinesi.
Il carattere
irrisolto del conflitto fra Arabi e Palestinesi
Come sostiene il
professor Daniel Bar-Tal[v], i
contrasti fra Ebrei e Palestinesi appartengono alla categoria dei conflitti
irrisolti. Questa tipologia è integrata da contrapposizioni che hanno un
carattere radicale in quanto ciascuna parte percepisce i propri interessi del
tutto incompatibili e inconciliabili con quelli della controparte;
conseguentemente le soggettività politiche che sono referenti delle
collettività contrapposte non sono disponibili a compromessi[vi]. Queste
premesse spiegano il carattere permanente di certi scontri e l’oggettiva
difficoltà di trovare soluzioni che possano essere accettate dalle rispettive
comunità. Spesso i conflitti irrisolti per il loro carattere politico
travalicano i confini locali e possono esercitare effetti destabilizzanti a
livello internazionale. Il confronto fra Israeliani e Palestinesi non può
essere ricondotto solo ad un contrasto fra diverse confessioni, cioè fra Ebrei
e Musulmani, né a una guerra fra due popoli. Questo conflitto al contrario ha
una natura estremamente composita e complessa, in quanto in esso, oltre a
componenti di carattere religioso ed etnico, confluiscono elementi che incidono
su equilibri geopolitici, mondiali e regionali. Per le implicazioni
transnazionali la soluzione di questo conflitto va oltre la mera
riconciliazione tra i due popoli. Le trattative fra Israeliani e Palestinesi
hanno sempre avuto la peculiarità di un dialogo fra sordi. Per Hamas,
l’organizzazione estremista politico-religiosa palestinese, gli attacchi
terroristici contro Israele sarebbero una modalità necessaria per difendere i
propri territori dall’aggressione sionista. Al contrario Israele rivendica il
diritto di occupare nuovi territori per insediare comunità; questi intenti
espansionistici sarebbero motivati da una carenza abitativa. Analogamente
Israeliani e Palestinesi rivendicano per opposti motivi la legittimità delle
loro pretese di sovranità su Gerusalemme. Quest’ultima ambizione ha anche una
matrice religiosa: Gerusalemme infatti è la terza città sacra dell’Islam dopo
La Mecca e Medina[vii],
mentre il nome della metropoli in ebraico significa letteralmente il luogo
dove apparirà il Messia[viii].
Le scelte strategiche di Israeliani e Palestinesi, oltre ad avere margini di
illegalità, si traducono in concreti ostacoli a prospettive di pace. C’è una
chiara asimmetria fra gli attori dei negoziati. Israele è uno Stato moderno e
solido; il popolo palestinese non ha invece una chiara soggettività politica,
né un esercito regolare; con difficoltà individua una leadership pienamente
rappresentativa e plenipotenziaria. La propaganda interna delle due parti, già
a cominciare dai testi scolastici, demonizza il ‘nemico’ descrivendolo come un
interlocutore crudele, sanguinario, e soprattutto disinteressato ad una
composizione pacifica della vertenza. A causa di quest’ottica negativa e
deviata, nell’immaginario collettivo degli Israeliani tutti i Palestinesi sono
terroristi, mentre in quello dei Palestinesi tutti gli Israeliani sono
oppressori e usurpatori. Fortunatamente non mancano su entrambi i fronti
personalità moderate che auspicano la tolleranza e l’accettazione dell’altro. Sia
la società israeliana che quella palestinese hanno molti problemi interni, che
rendono difficile la definizione di una propria identità condivisa da tutte le
componenti nazionali: l’esistenza di un nemico esterno, come avviene
frequentemente in casi analoghi, distoglie da questi problemi e unifica il
sentimento nazionale. C’è ancora una lunga strada da fare. Gli approfondimenti
e le analisi degli studiosi sugli aspetti che rendono irrisolto (o intractable,
come dicono gli inglesi con un’espressione più pragmatica) il conflitto fra
Israeliani e Palestinesi non sono una mera speculazione o un contributo
intellettuale alla democrazia israeliana, ma hanno importanti risvolti pratici,
in quanto sono finalizzati all’individuazione delle barriere socio-psicologiche
che impediscono ad Israele di intraprendere un cammino di pace. Essere
consapevoli di questi ostacoli è il presupposto per il loro superamento e per
l’individuazione di azioni concrete la cui attuazione potrà essere
congiuntamente concertata in un eventuale tavolo negoziale. In proposito,
Shimon Peres amava dire: “...non è vero che non c’è luce in fondo al tunnel in
Medio Oriente. Tutt’altro, la luce c’è. Il problema è che non c’è il tunnel…”.
[i] Il 29 novembre
1947 il Piano di partizione della Palestina elaborato dallo United Nations
Special Committee on Palestine fu approvato dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite, a New York Il 29 novembre 1947 con la Risoluzione n. 181
dell’Assemblea Generale. Il Piano, proponeva la partizione del territorio
palestinese fra due istituendi Stati, uno ebraico, l’altro arabo, con
Gerusalemme sotto controllo internazionale. Il rifiuto dei Paesi arabi del
Piano e il deterioramento delle relazioni fra Ebrei e Arabi in Palestina furono
le cause della Guerra arabo-israeliana del 1948-1949.
[ii] Shimon Peres (Višneva, 2 agosto 1923 – Ramat Gan, 28 settembre 2016) è stato un politico israeliano di origini polacche, Presidente di Israele dal 2007 al 2014. Esponente di primo piano del Partito Laburista, del quale è stato leader ininterrottamente dal 1977 al 1992 e successivamente a più riprese sino al 2005; sin dagli anni settanta ha assunto diversi incarichi di rilievo in seno alle istituzioni di Israele; in particolare è stato primo ministro nei periodi 1984-1986 e 1995-1996, nonché ministro degli Esteri (1986-1988, 1992-1995 e 2001-2002), ministro della difesa, ministro dei trasporti e ministro delle finanze. Nel 1994 a Peres è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat in relazione al processo di pace che ha portato agli Accordi di Oslo. Nel 2005 è diventato vicepremier nel governo di Ariel Sharon. Divenne presidente d’Israele il 13 giugno 2007 (fino al luglio 2014).
[iii] Più precisamente il progetto ha l’obiettivo di accogliere e ‘formare’ pellegrini e studenti che, da tutto il mondo, vengono a visitare la Terrasanta.
[iv] L’ospedale si trova proprio sulla strada che porta da Gerusalemme alla Chiesa della Natività di Betlemme, ad appena 200 metri di distanza dal checkpoint israeliano, sul lato palestinese.
[v] Il prof. Daniel Bar-Tal è docente emerito di Psicologia politica all’Università di Tel Aviv. Dal 2000 al 2005 è stato direttore dell’Istituto di ricerca Walter Lebach per la coesistenza tra arabi e ebrei attraverso l’educazione; dal 2001 al 2005 è stato condirettore del Palestine Israel Journal; dal 1999 al 2000 è stato presidente della Società Internazionale di Psicologia della Politica.
[vi] Israele e l’Olp fin dagli anni ’90 hanno stretto alcuni accordi nel tentativo di comporre in modo pacifico i contrastanti interessi dei due popoli ma gli estremisti di entrambe le parti hanno considerato i progetti di queste intese un cedimento all’avversario e con la violenza ne hanno impedito l‘applicazione.
[vii] La parte di Gerusalemme sacra ai musulmani è la Spianata delle Moschee, che si trova all’interno della cosiddetta ‘città vecchia’ di Gerusalemme. Oltre alla moschea di al Aqsa l’edificio più importante è la cosiddetta Cupola della Roccia, costruita nel luogo dove secondo l’Islam il profeta Maometto salì in cielo.
[viii] Più precisamente Gerusalemme è contesa da Israeliani e Arabi-palestinesi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli Ebrei affermano di averla fondata e averci costruito il luogo più sacro per l’ebraismo, il Tempio di Salomone, di cui oggi rimane il così detto Muro del Pianto. Gli Arabi-palestinesi hanno abitato Gerusalemme per secoli, e hanno costruito la Cupola della Roccia, cioè quella cupola d’oro che svetta guardando Gerusalemme da lontano. La Cupola della Roccia e la vicina moschea di al Aqsa si trovano sulla cosiddetta “Spianata delle Moschee”.