Premessa
Il
tema della compatibilità fra Islam e democrazia è particolarmente sensibile e
complesso. Il concetto di democrazia sarà considerato in questo scritto da un
punto di vista occidentale, ovvero come quella forma di governo che si fonda
sulla divisione dei poteri, che garantisce l’esercizio dei diritti di libertà
sia a livello individuale che collettivo, che assicura la tutela delle
minoranze[1]. L’interesse per i sistemi
politici islamici ad impronta teocratica si evidenziò con l’ascesa del terrorismo
jihadista culminata nei tragici fatti dell’11 settembre 2001. Come è
noto, la contrapposizione ideologica tra occidente e mondo islamico è stata
ricondotta da molti allo scontro di civiltà ipotizzato dal politologo
Huntington, che in un suo saggio del 1996[2] aveva scritto: “...la
fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà
sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e
le fonti principali di conflitto saranno legate alla cultura.” La questione
richiede un’analisi obiettiva, cioè, per quanto possibile, scevra da
preconcetti e pregiudizi di derivazione etnocentrica. Quale tipo di democrazia
è ipotizzabile nei Paesi musulmani che generalmente sono retti da regimi
autoritari? Preliminarmente è necessario precisare che per definire democratico
un Paese islamico non è sufficiente che il relativo ordinamento giuridico
preveda libere elezioni e condizioni che ne garantiscano un’adeguata
partecipazione popolare. È richiesta anche l’esistenza di una base politica,
giuridica, culturale, sociale che consenta il rispetto dei diritti individuali
e collettivi, l’eguaglianza tra i generi, la separazione dei poteri, il
pluralismo, la legalità integrata dalla supremazia del diritto positivo. Libere
elezioni si tengono in numerosi Paesi islamici (Tunisia, Egitto, Turchia, ad
esempio); in questi casi è opportuno che siano anche garantiti i poteri
all’opposizione, ovvero sia evitata una tirannia della maggioranza, cioè, nella
sostanza, un autoritarismo legalizzato. In questi Stati ad impronta teocratica
è difficile assicurare il rispetto di alcuni diritti e libertà civili, in
quanto la religione musulmana codifica forme di disuguaglianza come quella tra
i sessi; più precisamente, le aspirazioni laiche delle istituzioni sono spesso
condizionate dall’ingerenza dei principi della Sharia[3].Nel
mondo musulmano l’assenza di un’autorità religiosa superiore legittimata a
stabilire ufficialmente principi e dogmi[4] è stata il presupposto per
la nascita di più ortodossie, alcune delle quali violente e intolleranti. Islam
e democrazia possono essere termini compatibili solo se il primo non vincola le
scelte giuridiche e amministrative dello Stato ed esaurisce la sua funzione
nell’essere esclusivamente una fonte di ispirazione per le scelte morali di
individui e gruppi, e non ci sia inoltre sottomissione del potere statale alle
autorità religiose. In altri termini politica e Islam dovrebbero rimanere
confinati in ambiti distinti. Se invece l’Islam impone invasivamente una concezione
globale della realtà a cui lo Stato è obbligato ad uniformarsi, la strada per
una reale democrazia è segnata da ostacoli insormontabili.
Democrazia e libertà
Il
concetto di democrazia è strettamente correlato a quello di libertà[5]. La nozione di libertà nella
tradizione araba è di recente acquisizione in quanto storicamente l’aspirazione
di questi popoli è sempre stata prevalentemente la sola giustizia.
L’organizzazione tribale, che è alla base della società araba, implica
l’accettazione ‘fatalistica’ dell’esistenza di un potere superiore a cui ci si
sottopone pacificamente purché venga esercitato con equità. Inoltre gli Stati arabi non hanno avvertito
nel tempo la necessità di elaborare una struttura amministrativa decentrata, in
quanto al potere centrale per poter governare era sufficiente garantirsi
l’appoggio delle tribù, cioè delle comunità stanziate su specifici territori
periferici, le quali, come già detto, pretendevano come condizione necessaria e
sufficiente che il potere centrale, pur non esercitato democraticamente, fosse
amministrato secondo giustizia. La tribù, che aveva una specifica autonomia e
omogeneità, era caratterizzata da propri stili di vita, da autosufficienza, da
un forte legame con il territorio e, in alcuni casi, da una sua lingua o
dialetto. In essa mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o
rappresentativa: l’attribuzione del potere di governo locale era fondata su
meccanismi dinastici, di anzianità o su forme pseudo-istituzionali che
predeterminavano automaticamente il destinatario di funzioni di comando. Era
del tutto estraneo a questo modello organizzativo qualsiasi strumento che
assicurasse facoltà di libera scelta. La società tribale pertanto (e gli Stati
arabi che ne ereditarono la cultura giuridica) non si fondava sui diritti di
libertà e di uguaglianza prerogativa delle democrazie laiche. Un membro della
comunità tribale poteva aspirare a poteri di governo solo se apparteneva a una
specifica linea dinastica, o se fosse titolare di aspettative di quei poteri in
virtù di meccanismi di automatica predeterminazione: la libertà di un normale
membro della comunità si esauriva nel pretendere che la supremazia del potere
superiore nei suoi confronti venisse esercitata con equità. Gli Stati arabi al
momento della loro nascita, riconoscendo la preesistente struttura tribale e
demandando alle tribù la gestione locale del potere, ne ottenevano come
corrispettivo la fedeltà e il sostegno. Per poter valutare l’eventuale laicità
di uno Stato musulmano non è sufficiente considerare la promulgazione di
principi laici, ma si deve verificare l’esistenza di condizioni concrete che ne
consentano l’applicazione. Ad esempio, anche laddove sia proclamata la libertà
religiosa, tuttavia non raramente la concreta professione di atti di fede diversi
dall’Islam o la conversione di un musulmano ad altra religione vengono
sanzionate in quanto equiparate ad atti contrari all’ordine pubblico. Fatta
parzialmente eccezione per la Turchia - in questi anni anche in Turchia è in
atto un attacco alla laicità - e per la Tunisia, in nessuno Stato
musulmano viene tutelata sufficientemente la libertà di coscienza. La
tolleranza per le scelte religiose e politiche individuali nella cultura
giuridica occidentale trova fondamento principalmente nella Dichiarazione Universale
dei Diritti dell’Uomo firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, che non è
riconosciuta dagli Stati arabi, i quali in maniera specularmente contraria
ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali debbano essere
sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica[6]. Pertanto, per rapportare
i diritti e le libertà individuali alle loro esigenze religiose e culturali,
questi Paesi hanno elaborato una Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo,
proclamata a Parigi il 19 settembre 1981. Un altro strumento attraverso il
quale, pur essendo in corso processi di modernizzazione, viene assicurata la
vigenza dei principi della tradizione islamica, è l’affermazione giuridica
della necessaria non contraddittorietà tra leggi e principi fondamentali
dell’Islam, non suscettibili quindi di essere modificati o ridimensionati dalla
normativa vigente. In sintesi, il mondo arabo-islamico è prevalentemente
caratterizzato da regimi autoritari; probabilmente la motivazione di questa
caratteristica risiede nella genesi degli Stati arabi, nati - seppure con
modalità storicamente diversificate - dalla fusione di tribù, dalle quali hanno
ereditato le caratteristiche strutturali.
Alcune precisazioni
Stabilire
con chiarezza le relazioni e i confini fra religione e politica è la condizione
essenziale per lo sviluppo di principi - quali la tolleranza,
l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, la libertà di culto - che
sono il presupposto della democrazia. Corollario dell’inesistenza nella cultura
araba di una demarcazione fra fede e politica è la mancanza di una corretta
elaborazione del concetto di laicità, il quale viene spesso erroneamente
considerato coincidente con quello di ateismo a causa dell’assenza di
pluralismo religioso. In proposito,
fino a qualche decennio fa in arabo la parola ‘laicità’ non esisteva.
Attualmente con un neologismo si dice al maniyya, ma questo termine nel
suo esatto significato è generalmente compreso solo dai Musulmani che hanno
avuto contatti con la cultura occidentale. Il difetto di laicità ha come
conseguenza che i poteri dello Stato islamico sono considerati legittimi solo
se sono rispettosi della religione, diversamente dallo Stato moderno che si
fonda esclusivamente sul principio di legalità, ovvero sulla sovranità della
legge. La parola libertà nel mondo arabo aveva in passato solo un significato
legale e non politico, in quanto indicava l’assenza di limitazioni o
restrizioni individuali: il suo opposto era quindi la schiavitù. Termine
opposto alla tirannia non era la libertà, ma la giustizia, con la precisazione
che al dovere del capo di amministrare equamente non corrispondeva il diritto
del suddito di essere trattato giustamente. La libertà da un punto di vista
politico era solo una condizione collettiva, cioè coincideva con il concetto
occidentale di indipendenza dello Stato (che è cosa diversa dalla democrazia).
Quando gli echi della Rivoluzione francese giunsero nel mondo arabo, la parola
libertà assunse un’accezione politica, ma con connotazioni negative in quanto
gli intellettuali musulmani la adottarono come sinonimo di libertinaggio,
licenziosità ed anarchia, e quindi, in sintesi, come potenziale strumento di
eversione dell’ordine religioso. Il principio della separazione dei poteri
venne introdotto in alcuni Paesi islamici nei primi anni del Novecento, a
partire dalla Turchia. Con l’avvento del nazionalismo arabo la libertà tornò ad
essere sinonimo di indipendenza dello Stato dalle mire imperialiste di nazioni
straniere. Il pluralismo partitico, presupposto della democrazia parlamentare,
viene tuttora considerato dal pensiero fondamentalista un ostacolo per l’unità
e la compattezza della Umma, la comunità musulmana; la libertà di
opinione avrebbe infatti una connotazione negativa perché sarebbe causa di disorientamento
politico e religioso, premessa di un ritorno al caotico mondo pagano precedente
alla nascita dell’Islam. L’intangibilità della tradizione religiosa, unita alla
sua continua invasività sulla sfera politica, costituisce un freno all’iniziativa
individuale e collettiva, ovvero, in concreto, alla modernizzazione
istituzionale.
Dhimma
Un ostacolo all’instaurazione di una democrazia pluralista è l’applicazione della Dhimma[7], un desueto istituto previsto dalla Sharia[8]. Nel Periodo Islamico Classico (VII-XVI secolo) infatti non potevano far parte della Umma - cioè della comunità islamica - i fedeli di altre religioni, che pertanto non avevano il diritto di risiedere nella terra dell’Islam[9]. Tuttavia la stessa legge islamica prevedeva un’eccezione per i fedeli delle religioni monoteiste (per le così dette ‘Religioni del Libro’, e quindi, principalmente per gli Ebrei e i Cristiani): veniva loro riconosciuta la possibilità di risiedere nella terra dell’Islam a condizione che pagassero due imposte, una personale e una fondiaria, che avrebbero assicurato agli individui gravati dai tributi anche una protezione. La Jizya era il termine arabo che indicava questi gravami. Questo quadro normativo in concreto era un patto tra un’autorità di governo musulmana e fedeli non musulmani - cioè i Dhimmi - ovvero generalmente Cristiani ed Ebrei, tenuti anche a un comportamento di subordinazione i Musulmani, soggetti con capacità giuridica piena, e obbligati al massimo rispetto della fede islamica e ad evitare qualsiasi forma di proselitismo. Il Corano quindi non imponeva ad Ebrei e Cristiani di convertirsi all’Islam, ma li penalizzava con il pagamento di un tributo. Questo principio venne osservato nei primi secoli che seguirono l’espansione islamica; successivamente, questo patto venne occasionalmente disatteso e i Dhimmi furono forzati a scegliere tra l’Islam e la morte. La condizione inerente a questo istituto si perdeva a seguito di violazioni delle norme relative allo status (da esse poteva conseguire anche la pena capitale), o per la conversione all’Islam. Quest’ultima non era vista con particolare favore perché comportava la cessazione dall’esazione dei tributi conseguenti alla Dhimmitudine. Il fondamento dell’istituto della Dhimma era la convinzione dei fedeli musulmani della loro superiorità rispetto ai fedeli di altre religioni; l’eccezione prevista per gli Ebrei e i Cristiani aveva giustificazione nel carattere monoteista delle due fedi e nella comune discendenza dal padre Abramo. Per gli Islamici l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza; per Ebrei e Cristiani era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti alle violazioni delle condizioni imposte dalla legge islamica. Lo Stato Islamico (Daesh) ripristinò questo istituto, imponendo il pagamento di un tributo ai Cristiani residenti in alcune zone del territorio che erano sotto la propria sovranità; l’alternativa al pagamento della tassa era la conversione all’Islam o la morte. Anche in questo modo lo Stato Islamico rimise indietro l’orologio della Storia di alcuni secoli.
Primavera araba e democrazia
La
Primavera araba è stata caratterizzata da moti di rivolta inizialmente laici
che si sono avviati in Tunisia alla fine del 2010 e si sono propagati poi con
effetto domino in altri Paesi arabi. La Primavera araba è sembrata giungere
inattesa: in realtà non avrebbe dovuto sorprendere anche se quel fisiologico
fermento sociale che ha sempre permeato il mondo arabo sembrava
irrimediabilmente e costantemente frenato da un immobilismo prodotto dalla
diffusa rassegnazione della gente a subire, come una condizione inevitabile,
discriminazioni sociali, sistemi politici e giudiziari caratterizzati
dall’arbitrio. Tuttavia negli ultimi tempi era cresciuta la sensibilità nei
confronti della necessità di una trasformazione delle istituzioni in senso pluralista
e democratico, alimentata dal diffuso malessere per una società cristallizzata
su posizioni antidemocratiche e caratterizzata da una inaccettabile
diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze[10]. I manifestanti all’inizio non scesero in
strada in nome dell’Islam: i loro slogan inneggiavano ai valori universali
della dignità, della giustizia e della libertà; mancarono quelle manifestazioni
anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) che emersero in
precedenti rivoluzioni islamiche e che avevano accreditato l’immagine di un
mondo musulmano compatto nell’essere contrapposto all’occidente. Cosa resta
della volontà di rinnovamento della società araba in senso democratico,
elemento principale che ha animato la Primavera Araba? Nonostante l’iniziale
matrice laica, questi moti hanno progressivamente virato verso esiti fondamentalisti,
determinando una reviviscenza dell’integralismo islamico. Nel corso di questi
tumulti per la prima volta in quel contesto sono stati richiesti sistemi
politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e
democrazia. Gli Arabi, nel richiedere questi diritti, non potevano avere come
modello di riferimento le democrazie occidentali, da sempre considerate
corrotte e lontane dai valori spirituali e religiosi: il nuovo auspicato Stato
non poteva che essere fondato su una piena e pura applicazione dei valori
dell’Islam, considerati gli unici in grado di assicurare uno Stato perfetto,
oltre che giusto. Così la Primavera araba è progressivamente approdata ad esiti
fondamentalisti. Il nuovo contesto originato dai tumulti della Primavera Araba
ha contribuito a ridimensionare fortemente il valore attribuito al terrorismo.
Più precisamente in passato i cambiamenti
di regime o le rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di
gruppi eversivi, in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Stati. Si era
pertanto consolidata nei popoli arabi la consapevolezza che essi non avessero
alternative alla sottomissione a governi iniqui, mentre soltanto l’attività
terroristica poteva offrire prospettive concrete di cambiamento. La Primavera araba
ha tolto al terrorismo il monopolio della possibilità di mutamenti politici.
Conclusioni
Alla
luce dei precedenti approfondimenti può essere affrontato il quesito iniziale:
la religione islamica è compatibile con la democrazia intesa in senso occidentale?
La domanda, se formulata in termini così assoluti, è superficiale e mal posta:
infatti le variabili dei rapporti fra Islam e democrazia sono così numerose che
non è possibile fornire una risposta univoca, ma possono solo essere fissati
alcuni principi di massima.
Uno
Stato in cui è in vigore la Sharia[11]
difficilmente può coesistere con una società pluralista e democratica. Il
primato dell’Islam esclude la tutela dei fedeli di altre religioni.
Significativo è il desueto istituto della Dhimma che, prevedendo
un’eccezione al principio che vietava ai Non Musulmani di risiedere nella terra
dell’Islam, consentiva ad Ebrei e Cristiani di vivere nello Stato islamico
subordinando tuttavia questa possibilità al pagamento di imposte. L’alternativa
all’istituto era la conversione all’Islam o la morte. In altri termini Ebrei e
Cristiani godevano di diritti maggiori rispetto a quelli di altri soggetti non
musulmani, ma minori di quelli previsti in favore dei musulmani. Inoltre,
l’Islam giustifica altre forme di discriminazione oltre quella religiosa, come
ad esempio quella tra i sessi. In conclusione, l’ingerenza della Sharia[12]
nella società civile è incompatibile con il pluralismo politico e
religioso, con la tutela delle minoranze, con l’uguaglianza e i diritti di
libertà[13]. In sintesi, in questi
casi l’Islam è incompatibile con la democrazia. Diversamente, se lo Stato in
cui risiede una maggioranza musulmana ha leggi laiche, non ci sono
pregiudiziali ostative alla democrazia. Questo principio ha riscontri concreti.
Ad esempio: in Tunisia, nonostante il 98% della popolazione sia di religione
musulmana, nel 2014 è stata adottata una Costituzione frutto di compromesso tra
il partito islamista Ennahda[14]
e le forze dell’opposizione. Questa Carta Costituzionale accorda un posto
politicamente contenuto all’Islam e introduce in vari settori della società la
parità fra uomo e donna; prevede inoltre la libertà di coscienza garantisce la
libertà d’espressione e vieta la tortura fisica e morale[15]. Fra queste due posizioni
- ovvero quella dello Stato governato dalla Sharia e quella dello Stato
che si avvale di leggi laiche pur caratterizzato da una popolazione in
maggioranza musulmana - ci sono sfumate situazioni intermedie. Sullo sfondo il
ricorrente problema della definizione del così detto ‘Islam moderato’, dal
momento che, come già detto, fra le varie correnti dell’Islam, è impossibile
individuare quella ufficiale. Resta la generale difficoltà di definire
concretamente il concetto di democrazia: se da un punto di vista formale è
facile stabilire gli indici della sua esistenza, da un punto di vista
sostanziale la democrazia è un processo in fieri, forse eternamente
incompiuto[16].
RR
[1] “Una
democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e
giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è
solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati
sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma
fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri
maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa.” (Luca Sofri).
[2] Samuel
Huntington, Lo scontro delle civiltà e
il nuovo ordine mondiale, 1996.
[3] La Sharia è la
legge coranica.
[4] Questo
diversamente da quello che avviene nella Chiesa Cattolica che ha vertici
istituzionali che stabiliscono le sue posizioni ufficiali. In particolare la
Chiesa Cattolica indica il proprio insegnamento attraverso il Magistero. Il
Magistero ordinario si esercita mediante encicliche, lettere pastorali,
dichiarazioni conciliari, altri atti scritti, o attraverso la predicazione
orale del Papa e dei vescovi. Il Magistero straordinario, invece, consiste in
un pronunciamento ex cathedra del
Papa, che definisce una verità di fede di natura dogmatica. Ogni fedele
cattolico è moralmente obbligato ad assentire e a credere sia alle
dichiarazioni proposte dal Magistero straordinario, sia a quelle proposte dal
Magistero ordinario.
[5] “È chiaro che l’ideale della totale libertà
non esiste in nessuna società. Insomma, ci sono maggiori e minori
approssimazioni a questa idea della società libera.” (Norberto Bobbio).
[6] La comunità dei
credenti musulmani senza distinzioni etniche, linguistiche e culturali è detta
‘Umma’. Considerato il carattere militante della religione islamica, il termine
non ha solo un significato religioso ma anche politico in quanto idealmente
unisce tutte le nazioni nelle quali è in vigore la legge islamica.
[7] Dhimma in arabo significa ‘patto di
protezione’.
[8] Si veda la nota
3.
[9] In proposito, la Sura 9,29 del Corano così recita:
“Combatti coloro che non credono in Dio né nel Giorno del Giudizio, né
ritengono vietato ciò che è stato proibito da Dio e dal suo Messaggero, né
riconoscono la religione della Verità, (anche se sono) del Popolo del Libro,
finché non paghino la jizya accettando
di sottomettersi, e si sentano sottomessi”. Più precisamente la jizya gravava nel Periodo Islamico
Classico (VII-XVI secolo) su ogni suddito non musulmano protetto, ovvero,
segnatamente, cristiani, ebrei, zoroastriani, sabei, induisti e ogni altro
seguace di culti basati su testi sacri considerati dall’Islam di origine
divina; gravava sui sudditi maschi puberi in grado di produrre reddito mentre
erano esentati gli appartenenti al clero. A carico dei sudditi protetti c’era
anche un’imposta che gravava sui beni immobiliari fondiari. La Dhimma in concreto era un patto tra
Non Musulmani e un’autorità di governo musulmana.
[10] “Per una serie di
circostanze, che lascio volentieri agli storici e ai sociologi, quello a cui
stiamo assistendo, dopo la rivolta tunisina del dicembre 2010, è il fallimento
dello Stato arabo-musulmano. È fallito lo Stato dei nuovi sultani: l’Egitto di Hosni
Mubarak, la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, la Libia del colonnello
Gheddafi. È fallito il nazionalsocialismo iracheno di Saddam Hussein e quello
siriano della famiglia Assad. È fallita la democrazia multireligiosa e
multiculturale del Libano. È fallita la Lega Araba. E potrebbero fallire, prima
o dopo, gli Stati patrimoniali del Golfo. Sopravvivono paradossalmente le
monarchie, da quella di Mohammed VI in Marocco a quella di Abdullah II in
Giordania, ma il rischio del contagio, soprattutto nella seconda, è altissimo.
In alcuni casi, Siria e Libia, la crisi è diventata rapidamente guerra civile.
In altri casi, Egitto e Libano, la
guerra civile potrebbe scoppiare da un momento all’altro.” (Sergio
Romano).
[11] Si veda la nota
3.
[12] Si veda la nota 3.
[13] Politica e
religione nell’Islam sono termini inscindibili e non dissociabili l’uno
dall’altro.
[14] Ennahda ovvero il Movimento della
Rinascita è un partito politico tunisino di orientamento islamista moderato.
[15] Si trascrivono
alcune affermazioni contenute nella Costituzione tunisina: “le cittadine e i
cittadini sono uguali davanti alla legge, senza discriminazioni”, “lo Stato è
custode della religione, garante della libertà di coscienza e di fede e del
libero esercizio del culto”, “la tortura è un crimine imprescrittibile”.
[16] “La democrazia, come la concepiamo e la
desideriamo, in breve, è il regime delle possibilità sempre aperte. Non
basandosi su certezze definitive, essa è sempre disposta a correggersi perché –
salvi i suoi presupposti procedurali (le deliberazioni popolari e parlamentari)
e sostanziali (i diritti di libera, responsabile e uguale partecipazione
politica), consacrati in norme intangibili della Costituzione, oggi garantiti
da Tribunali costituzionali – tutto può sempre essere rimesso in discussione.
La vita democratica è una continua ricerca e un continuo confronto su ciò che,
per il consenso comune che di tempo in tempo viene a determinarsi
modificandosi, può essere ritenuto prossimo al bene sociale. Il dogma – cioè
l’affermazione definitiva e quindi indiscutibile di ciò che è vero, buono e
giusto – come pure le decisioni di fatto irreversibili, cioè quelle che per
loro natura non possono essere ripensate e modificate (come mettere a morte
qualcuno), sono incompatibili con la democrazia.” (Gustavo Zagrebelsky).