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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

giovedì 24 settembre 2020

ISLAM E DEMOCRAZIA (1.12.2015)

 Premessa

Il tema della compatibilità fra Islam e democrazia è particolarmente sensibile e complesso. Il concetto di democrazia sarà considerato in questo scritto da un punto di vista occidentale, ovvero come quella forma di governo che si fonda sulla divisione dei poteri, che garantisce l’esercizio dei diritti di libertà sia a livello individuale che collettivo, che assicura la tutela delle minoranze[1]. L’interesse per i sistemi politici islamici ad impronta teocratica si evidenziò con l’ascesa del terrorismo jihadista culminata nei tragici fatti dell’11 settembre 2001. Come è noto, la contrapposizione ideologica tra occidente e mondo islamico è stata ricondotta da molti allo scontro di civiltà ipotizzato dal politologo Huntington, che in un suo saggio del 1996[2] aveva scritto: “...la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e le fonti principali di conflitto saranno legate alla cultura.” La questione richiede un’analisi obiettiva, cioè, per quanto possibile, scevra da preconcetti e pregiudizi di derivazione etnocentrica. Quale tipo di democrazia è ipotizzabile nei Paesi musulmani che generalmente sono retti da regimi autoritari? Preliminarmente è necessario precisare che per definire democratico un Paese islamico non è sufficiente che il relativo ordinamento giuridico preveda libere elezioni e condizioni che ne garantiscano un’adeguata partecipazione popolare. È richiesta anche l’esistenza di una base politica, giuridica, culturale, sociale che consenta il rispetto dei diritti individuali e collettivi, l’eguaglianza tra i generi, la separazione dei poteri, il pluralismo, la legalità integrata dalla supremazia del diritto positivo. Libere elezioni si tengono in numerosi Paesi islamici (Tunisia, Egitto, Turchia, ad esempio); in questi casi è opportuno che siano anche garantiti i poteri all’opposizione, ovvero sia evitata una tirannia della maggioranza, cioè, nella sostanza, un autoritarismo legalizzato. In questi Stati ad impronta teocratica è difficile assicurare il rispetto di alcuni diritti e libertà civili, in quanto la religione musulmana codifica forme di disuguaglianza come quella tra i sessi; più precisamente, le aspirazioni laiche delle istituzioni sono spesso condizionate dall’ingerenza dei principi della Sharia[3].Nel mondo musulmano l’assenza di un’autorità religiosa superiore legittimata a stabilire ufficialmente principi e dogmi[4] è stata il presupposto per la nascita di più ortodossie, alcune delle quali violente e intolleranti. Islam e democrazia possono essere termini compatibili solo se il primo non vincola le scelte giuridiche e amministrative dello Stato ed esaurisce la sua funzione nell’essere esclusivamente una fonte di ispirazione per le scelte morali di individui e gruppi, e non ci sia inoltre sottomissione del potere statale alle autorità religiose. In altri termini politica e Islam dovrebbero rimanere confinati in ambiti distinti. Se invece l’Islam impone invasivamente una concezione globale della realtà a cui lo Stato è obbligato ad uniformarsi, la strada per una reale democrazia è segnata da ostacoli insormontabili.

Democrazia e libertà

Il concetto di democrazia è strettamente correlato a quello di libertà[5]. La nozione di libertà nella tradizione araba è di recente acquisizione in quanto storicamente l’aspirazione di questi popoli è sempre stata prevalentemente la sola giustizia. L’organizzazione tribale, che è alla base della società araba, implica l’accettazione ‘fatalistica’ dell’esistenza di un potere superiore a cui ci si sottopone pacificamente purché venga esercitato con equità.  Inoltre gli Stati arabi non hanno avvertito nel tempo la necessità di elaborare una struttura amministrativa decentrata, in quanto al potere centrale per poter governare era sufficiente garantirsi l’appoggio delle tribù, cioè delle comunità stanziate su specifici territori periferici, le quali, come già detto, pretendevano come condizione necessaria e sufficiente che il potere centrale, pur non esercitato democraticamente, fosse amministrato secondo giustizia. La tribù, che aveva una specifica autonomia e omogeneità, era caratterizzata da propri stili di vita, da autosufficienza, da un forte legame con il territorio e, in alcuni casi, da una sua lingua o dialetto. In essa mancava qualsiasi espressione di democrazia diretta o rappresentativa: l’attribuzione del potere di governo locale era fondata su meccanismi dinastici, di anzianità o su forme pseudo-istituzionali che predeterminavano automaticamente il destinatario di funzioni di comando. Era del tutto estraneo a questo modello organizzativo qualsiasi strumento che assicurasse facoltà di libera scelta. La società tribale pertanto (e gli Stati arabi che ne ereditarono la cultura giuridica) non si fondava sui diritti di libertà e di uguaglianza prerogativa delle democrazie laiche. Un membro della comunità tribale poteva aspirare a poteri di governo solo se apparteneva a una specifica linea dinastica, o se fosse titolare di aspettative di quei poteri in virtù di meccanismi di automatica predeterminazione: la libertà di un normale membro della comunità si esauriva nel pretendere che la supremazia del potere superiore nei suoi confronti venisse esercitata con equità. Gli Stati arabi al momento della loro nascita, riconoscendo la preesistente struttura tribale e demandando alle tribù la gestione locale del potere, ne ottenevano come corrispettivo la fedeltà e il sostegno. Per poter valutare l’eventuale laicità di uno Stato musulmano non è sufficiente considerare la promulgazione di principi laici, ma si deve verificare l’esistenza di condizioni concrete che ne consentano l’applicazione. Ad esempio, anche laddove sia proclamata la libertà religiosa, tuttavia non raramente la concreta professione di atti di fede diversi dall’Islam o la conversione di un musulmano ad altra religione vengono sanzionate in quanto equiparate ad atti contrari all’ordine pubblico. Fatta parzialmente eccezione per la Turchia - in questi anni anche in Turchia è in atto un attacco alla laicità - e per la Tunisia, in nessuno Stato musulmano viene tutelata sufficientemente la libertà di coscienza. La tolleranza per le scelte religiose e politiche individuali nella cultura giuridica occidentale trova fondamento principalmente nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo firmata a Parigi il 10 dicembre 1948, che non è riconosciuta dagli Stati arabi, i quali in maniera specularmente contraria ritengono che le posizioni giuridiche soggettive individuali debbano essere sacrificate in favore delle esigenze della comunità islamica[6]. Pertanto, per rapportare i diritti e le libertà individuali alle loro esigenze religiose e culturali, questi Paesi hanno elaborato una Dichiarazione Islamica dei Diritti dell’Uomo, proclamata a Parigi il 19 settembre 1981. Un altro strumento attraverso il quale, pur essendo in corso processi di modernizzazione, viene assicurata la vigenza dei principi della tradizione islamica, è l’affermazione giuridica della necessaria non contraddittorietà tra leggi e principi fondamentali dell’Islam, non suscettibili quindi di essere modificati o ridimensionati dalla normativa vigente. In sintesi, il mondo arabo-islamico è prevalentemente caratterizzato da regimi autoritari; probabilmente la motivazione di questa caratteristica risiede nella genesi degli Stati arabi, nati - seppure con modalità storicamente diversificate - dalla fusione di tribù, dalle quali hanno ereditato le caratteristiche strutturali.

Alcune precisazioni

Stabilire con chiarezza le relazioni e i confini fra religione e politica è la condizione essenziale per lo sviluppo di principi - quali la tolleranza, l’uguaglianza, il rispetto della libertà di pensiero, la libertà di culto - che sono il presupposto della democrazia. Corollario dell’inesistenza nella cultura araba di una demarcazione fra fede e politica è la mancanza di una corretta elaborazione del concetto di laicità, il quale viene spesso erroneamente considerato coincidente con quello di ateismo a causa dell’assenza di pluralismo religioso.   In proposito, fino a qualche decennio fa in arabo la parola ‘laicità’ non esisteva. Attualmente con un neologismo si dice al maniyya, ma questo termine nel suo esatto significato è generalmente compreso solo dai Musulmani che hanno avuto contatti con la cultura occidentale. Il difetto di laicità ha come conseguenza che i poteri dello Stato islamico sono considerati legittimi solo se sono rispettosi della religione, diversamente dallo Stato moderno che si fonda esclusivamente sul principio di legalità, ovvero sulla sovranità della legge. La parola libertà nel mondo arabo aveva in passato solo un significato legale e non politico, in quanto indicava l’assenza di limitazioni o restrizioni individuali: il suo opposto era quindi la schiavitù. Termine opposto alla tirannia non era la libertà, ma la giustizia, con la precisazione che al dovere del capo di amministrare equamente non corrispondeva il diritto del suddito di essere trattato giustamente. La libertà da un punto di vista politico era solo una condizione collettiva, cioè coincideva con il concetto occidentale di indipendenza dello Stato (che è cosa diversa dalla democrazia). Quando gli echi della Rivoluzione francese giunsero nel mondo arabo, la parola libertà assunse un’accezione politica, ma con connotazioni negative in quanto gli intellettuali musulmani la adottarono come sinonimo di libertinaggio, licenziosità ed anarchia, e quindi, in sintesi, come potenziale strumento di eversione dell’ordine religioso. Il principio della separazione dei poteri venne introdotto in alcuni Paesi islamici nei primi anni del Novecento, a partire dalla Turchia. Con l’avvento del nazionalismo arabo la libertà tornò ad essere sinonimo di indipendenza dello Stato dalle mire imperialiste di nazioni straniere. Il pluralismo partitico, presupposto della democrazia parlamentare, viene tuttora considerato dal pensiero fondamentalista un ostacolo per l’unità e la compattezza della Umma, la comunità musulmana; la libertà di opinione avrebbe infatti una connotazione negativa perché sarebbe causa di disorientamento politico e religioso, premessa di un ritorno al caotico mondo pagano precedente alla nascita dell’Islam. L’intangibilità della tradizione religiosa, unita alla sua continua invasività sulla sfera politica, costituisce un freno all’iniziativa individuale e collettiva, ovvero, in concreto, alla modernizzazione istituzionale.

Dhimma

Un ostacolo all’instaurazione di una democrazia pluralista è l’applicazione della Dhimma[7], un desueto istituto previsto dalla Sharia[8]. Nel Periodo Islamico Classico (VII-XVI secolo) infatti non potevano far parte della Umma - cioè della comunità islamica - i fedeli di altre religioni, che pertanto non avevano il diritto di risiedere nella terra dell’Islam[9]. Tuttavia la stessa legge islamica prevedeva un’eccezione per i fedeli delle religioni monoteiste (per le così dette ‘Religioni del Libro’, e quindi, principalmente per gli Ebrei e i Cristiani): veniva loro riconosciuta la possibilità di risiedere nella terra dell’Islam a condizione che pagassero due imposte, una personale e una fondiaria, che avrebbero assicurato agli individui gravati dai tributi anche una protezione. La Jizya era il termine arabo che indicava questi gravami. Questo quadro normativo in concreto era un patto tra un’autorità di governo musulmana e fedeli non musulmani - cioè i Dhimmi - ovvero generalmente Cristiani ed Ebrei, tenuti anche a un comportamento di subordinazione i Musulmani, soggetti con capacità giuridica piena, e obbligati al massimo rispetto della fede islamica e ad evitare qualsiasi forma di proselitismo. Il Corano quindi non imponeva ad Ebrei e Cristiani di convertirsi all’Islam, ma li penalizzava con il pagamento di un tributo. Questo principio venne osservato nei primi secoli che seguirono l’espansione islamica; successivamente, questo patto venne occasionalmente disatteso e i Dhimmi furono forzati a scegliere tra l’Islam e la morte. La condizione inerente a questo istituto si perdeva a seguito di violazioni delle norme relative allo status (da esse poteva conseguire anche la pena capitale), o per la conversione all’Islam. Quest’ultima non era vista con particolare favore perché comportava la cessazione dall’esazione dei tributi conseguenti alla Dhimmitudine. Il fondamento dell’istituto della Dhimma era la convinzione dei fedeli musulmani della loro superiorità rispetto ai fedeli di altre religioni; l’eccezione prevista per gli Ebrei e i Cristiani aveva giustificazione nel carattere monoteista delle due fedi e nella comune discendenza dal padre Abramo. Per gli Islamici l’istituto era un atto di liberalità e tolleranza; per Ebrei e Cristiani era fonte di una condizione minorata, di limitazioni e di una costante esposizione alle pesanti sanzioni conseguenti alle violazioni delle condizioni imposte dalla legge islamica. Lo Stato Islamico (Daesh) ripristinò questo istituto, imponendo il pagamento di un tributo ai Cristiani residenti in alcune zone del territorio che erano sotto la propria sovranità; l’alternativa al pagamento della tassa era la conversione all’Islam o la morte. Anche in questo modo lo Stato Islamico rimise indietro l’orologio della Storia di alcuni secoli.

Primavera araba e democrazia

La Primavera araba è stata caratterizzata da moti di rivolta inizialmente laici che si sono avviati in Tunisia alla fine del 2010 e si sono propagati poi con effetto domino in altri Paesi arabi. La Primavera araba è sembrata giungere inattesa: in realtà non avrebbe dovuto sorprendere anche se quel fisiologico fermento sociale che ha sempre permeato il mondo arabo sembrava irrimediabilmente e costantemente frenato da un immobilismo prodotto dalla diffusa rassegnazione della gente a subire, come una condizione inevitabile, discriminazioni sociali, sistemi politici e giudiziari caratterizzati dall’arbitrio. Tuttavia negli ultimi tempi era cresciuta la sensibilità nei confronti della necessità di una trasformazione delle istituzioni in senso pluralista e democratico, alimentata dal diffuso malessere per una società cristallizzata su posizioni antidemocratiche e caratterizzata da una inaccettabile diseguaglianza nella distribuzione delle ricchezze[10].  I manifestanti all’inizio non scesero in strada in nome dell’Islam: i loro slogan inneggiavano ai valori universali della dignità, della giustizia e della libertà; mancarono quelle manifestazioni anti-occidentali (soprattutto anti-americane e anti-israeliane) che emersero in precedenti rivoluzioni islamiche e che avevano accreditato l’immagine di un mondo musulmano compatto nell’essere contrapposto all’occidente. Cosa resta della volontà di rinnovamento della società araba in senso democratico, elemento principale che ha animato la Primavera Araba? Nonostante l’iniziale matrice laica, questi moti hanno progres­sivamente virato verso esiti fondamentalisti, determinando una reviviscenza dell’integralismo islamico. Nel corso di questi tumulti per la prima volta in quel contesto sono stati richiesti sistemi politici che, oltre a governare con giustizia, assicurassero libertà e democrazia. Gli Arabi, nel richiedere questi diritti, non potevano avere come modello di riferimento le democrazie occidentali, da sempre considerate corrotte e lontane dai valori spirituali e religiosi: il nuovo auspicato Stato non poteva che essere fondato su una piena e pura applicazione dei valori dell’Islam, considerati gli unici in grado di assicurare uno Stato perfetto, oltre che giusto. Così la Primavera araba è progressivamente approdata ad esiti fondamentalisti. Il nuovo contesto originato dai tumulti della Primavera Araba ha contribuito a ridimensionare fortemente il valore attribuito al terrorismo.  Più precisamente in passato i cambiamenti di regime o le rivoluzioni interne si erano avuti a seguito di iniziative di gruppi eversivi, in qualche caso con l’ausilio esterno di altri Stati. Si era pertanto consolidata nei popoli arabi la consapevolezza che essi non avessero alternative alla sottomissione a governi iniqui, mentre soltanto l’attività terroristica poteva offrire prospettive concrete di cambiamento. La Primavera araba ha tolto al terrorismo il monopolio della possibilità di mutamenti politici.

Conclusioni

Alla luce dei precedenti approfondimenti può essere affrontato il quesito iniziale: la religione islamica è compatibile con la democrazia intesa in senso occidentale? La domanda, se formulata in termini così assoluti, è superficiale e mal posta: infatti le variabili dei rapporti fra Islam e democrazia sono così numerose che non è possibile fornire una risposta univoca, ma possono solo essere fissati alcuni principi di massima.

Uno Stato in cui è in vigore la Sharia[11] difficilmente può coesistere con una società pluralista e democratica. Il primato dell’Islam esclude la tutela dei fedeli di altre religioni. Significativo è il desueto istituto della Dhimma che, prevedendo un’eccezione al principio che vietava ai Non Musulmani di risiedere nella terra dell’Islam, consentiva ad Ebrei e Cristiani di vivere nello Stato islamico subordinando tuttavia questa possibilità al pagamento di imposte. L’alternativa all’istituto era la conversione all’Islam o la morte. In altri termini Ebrei e Cristiani godevano di diritti maggiori rispetto a quelli di altri soggetti non musulmani, ma minori di quelli previsti in favore dei musulmani. Inoltre, l’Islam giustifica altre forme di discriminazione oltre quella religiosa, come ad esempio quella tra i sessi. In conclusione, l’ingerenza della Sharia[12] nella società civile è incompatibile con il pluralismo politico e religioso, con la tutela delle minoranze, con l’uguaglianza e i diritti di libertà[13]. In sintesi, in questi casi l’Islam è incompatibile con la democrazia. Diversamente, se lo Stato in cui risiede una maggioranza musulmana ha leggi laiche, non ci sono pregiudiziali ostative alla democrazia. Questo principio ha riscontri concreti. Ad esempio: in Tunisia, nonostante il 98% della popolazione sia di religione musulmana, nel 2014 è stata adottata una Costituzione frutto di compromesso tra il partito islamista Ennahda[14] e le forze dell’opposizione. Questa Carta Costituzionale accorda un posto politicamente contenuto all’Islam e introduce in vari settori della società la parità fra uomo e donna; prevede inoltre la libertà di coscienza garantisce la libertà d’espressione e vieta la tortura fisica e morale[15]. Fra queste due posizioni - ovvero quella dello Stato governato dalla Sharia e quella dello Stato che si avvale di leggi laiche pur caratterizzato da una popolazione in maggioranza musulmana - ci sono sfumate situazioni intermedie. Sullo sfondo il ricorrente problema della definizione del così detto ‘Islam moderato’, dal momento che, come già detto, fra le varie correnti dell’Islam, è impossibile individuare quella ufficiale. Resta la generale difficoltà di definire concretamente il concetto di democrazia: se da un punto di vista formale è facile stabilire gli indici della sua esistenza, da un punto di vista sostanziale la democrazia è un processo in fieri, forse eternamente incompiuto[16]. RR



[1]  “Una democrazia è un sistema di funzionamento delle comunità auspicabile, efficace e giusto perché consente che le opinioni e le scelte di tutti pesino, ma lo è solo se quelle opinioni e scelte sono informate, se nascono da dati sufficientemente completi e non falsi. Altrimenti è solo un sistema giusto, ma fallimentare e controproducente: una democrazia disinformata genera mostri maggiori di una dittatura illuminata, per dirla grossa.” (Luca Sofri).

[2] Samuel Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1996.

[3] La Sharia è la legge coranica.

[4] Questo diversamente da quello che avviene nella Chiesa Cattolica che ha vertici istituzionali che stabiliscono le sue posizioni ufficiali. In particolare la Chiesa Cattolica indica il proprio insegnamento attraverso il Magistero. Il Magistero ordinario si esercita mediante encicliche, lettere pastorali, dichiarazioni conciliari, altri atti scritti, o attraverso la predicazione orale del Papa e dei vescovi. Il Magistero straordinario, invece, consiste in un pronunciamento ex cathedra del Papa, che definisce una verità di fede di natura dogmatica. Ogni fedele cattolico è moralmente obbligato ad assentire e a credere sia alle dichiarazioni proposte dal Magistero straordinario, sia a quelle proposte dal Magistero ordinario.

[5] “È chiaro che l’ideale della totale libertà non esiste in nessuna società. Insomma, ci sono maggiori e minori approssimazioni a questa idea della società libera.” (Norberto Bobbio).

[6] La comunità dei credenti musulmani senza distinzioni etniche, linguistiche e culturali è detta ‘Umma’. Considerato il carattere militante della religione islamica, il termine non ha solo un significato religioso ma anche politico in quanto idealmente unisce tutte le nazioni nelle quali è in vigore la legge islamica.

[7] Dhimma in arabo significa ‘patto di protezione’.

[8] Si veda la nota 3.

[9] In proposito, la Sura 9,29 del Corano così recita: “Combatti coloro che non credono in Dio né nel Giorno del Giudizio, né ritengono vietato ciò che è stato proibito da Dio e dal suo Messaggero, né riconoscono la religione della Verità, (anche se sono) del Popolo del Libro, finché non paghino la jizya accettando di sottomettersi, e si sentano sottomessi”. Più precisamente la jizya gravava nel Periodo Islamico Classico (VII-XVI secolo) su ogni suddito non musulmano protetto, ovvero, segnatamente, cristiani, ebrei, zoroastriani, sabei, induisti e ogni altro seguace di culti basati su testi sacri considerati dall’Islam di origine divina; gravava sui sudditi maschi puberi in grado di produrre reddito mentre erano esentati gli appartenenti al clero. A carico dei sudditi protetti c’era anche un’imposta che gravava sui beni immobiliari fondiari. La Dhimma in concreto era un patto tra Non Musulmani e un’autorità di governo musulmana.

[10] “Per una serie di circostanze, che lascio volentieri agli storici e ai sociologi, quello a cui stiamo assistendo, dopo la rivolta tunisina del dicembre 2010, è il fallimento dello Stato arabo-musulmano. È fallito lo Stato dei nuovi sultani: l’Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, la Libia del colonnello Gheddafi. È fallito il nazionalsocialismo iracheno di Saddam Hussein e quello siriano della famiglia Assad. È fallita la democrazia multireligiosa e multiculturale del Libano. È fallita la Lega Araba. E potrebbero fallire, prima o dopo, gli Stati patrimoniali del Golfo. Sopravvivono paradossalmente le monarchie, da quella di Mohammed VI in Marocco a quella di Abdullah II in Giordania, ma il rischio del contagio, soprattutto nella seconda, è altissimo. In alcuni casi, Siria e Libia, la crisi è diventata rapidamente guerra civile. In altri casi, Egitto e Libano, la guerra civile potrebbe scoppiare da un momento all’altro.” (Sergio Romano).

[11] Si veda la nota 3.

[12] Si veda la nota 3.

[13] Politica e religione nell’Islam sono termini inscindibili e non dissociabili l’uno dall’altro.

[14] Ennahda ovvero il Movimento della Rinascita è un partito politico tunisino di orientamento islamista moderato.

[15] Si trascrivono alcune affermazioni contenute nella Costituzione tunisina: “le cittadine e i cittadini sono uguali davanti alla legge, senza discriminazioni”, “lo Stato è custode della religione, garante della libertà di coscienza e di fede e del libero esercizio del culto”, “la tortura è un crimine imprescrittibile”.

[16] “La democrazia, come la concepiamo e la desideriamo, in breve, è il regime delle possibilità sempre aperte. Non basandosi su certezze definitive, essa è sempre disposta a correggersi perché – salvi i suoi presupposti procedurali (le deliberazioni popolari e parlamentari) e sostanziali (i diritti di libera, responsabile e uguale partecipazione politica), consacrati in norme intangibili della Costituzione, oggi garantiti da Tribunali costituzionali – tutto può sempre essere rimesso in discussione. La vita democratica è una continua ricerca e un continuo confronto su ciò che, per il consenso comune che di tempo in tempo viene a determinarsi modificandosi, può essere ritenuto prossimo al bene sociale. Il dogma – cioè l’affermazione definitiva e quindi indiscutibile di ciò che è vero, buono e giusto – come pure le decisioni di fatto irreversibili, cioè quelle che per loro natura non possono essere ripensate e modificate (come mettere a morte qualcuno), sono incompatibili con la democrazia.” (Gustavo Zagrebelsky).