C’è il rischio che il 2026 non venga ricordato come un anno
di svolta, ma come il momento in cui il mondo prende definitivamente atto di
vivere dentro una instabilità strutturale, non più transitoria né emergenziale,
bensì normalizzata, amministrata, quasi interiorizzata dai sistemi politici e
dalle società. C’è il rischio che la geopolitica continui a smettere di
promettere ordine e cominci solo a distribuire forme di contenimento, dove la
gestione del conflitto sostituisce la sua risoluzione e la durata diventa una
variabile strategica più importante dell’esito. In questo scenario c’è il
rischio che la multipolarità, invece di produrre equilibrio, consolidi una
frammentazione competitiva permanente, fatta di potenze che non riescono a
dominare il sistema ma nemmeno ad accettarne una regolazione condivisa,
generando un mondo in cui le sfere di influenza si sovrappongono, si urtano e
si consumano senza mai chiarirsi del tutto. C’è il rischio che i conflitti in
corso non trovino vere conclusioni ma si trasformino in guerre lunghe,
intermittenti, ibride, capaci di assorbire risorse, attenzione e legittimità
politica, mentre la pace smette di essere un obiettivo e diventa una pausa
tecnica tra una crisi e l’altra. C’è il rischio che la sicurezza venga sempre
più tradotta in architettura quotidiana, in un insieme di controlli,
restrizioni, dipendenze energetiche e digitali che incidono direttamente sulle
vite ordinarie, producendo società più protette ma anche più rigide, più
sorvegliate e meno fiduciose, dove la promessa politica non è più il progresso
ma la semplice tenuta. C’è il rischio che la tecnologia, soprattutto
l’intelligenza artificiale e il controllo dei dati, diventi il vero campo di
battaglia invisibile, spostando il conflitto dalla conquista dei territori alla
conquista degli standard, dagli eserciti agli algoritmi, creando nuove
asimmetrie di potere difficili da percepire ma quasi impossibili da colmare.
C’è il rischio che l’Europa attraversi il 2026 consapevole della propria
fragilità strategica ma ancora incompiuta nella capacità di tradurre questa
consapevolezza in decisione, rimanendo una potenza normativa in un mondo che
privilegia la forza, la rapidità e l’ambiguità, esposta quindi al pericolo di
diventare uno spazio regolato più che un soggetto geopolitico pienamente
autonomo. C’è il rischio che, in assenza di grandi narrazioni condivise,
tornino con forza linguaggi identitari, religiosi e simbolici, capaci di dare
senso al conflitto ma anche di irrigidirlo, rendendo le crisi più resistenti al
compromesso e più profonde sul piano culturale e psicologico. In definitiva c’è
il rischio che il 2026 non apra una nuova fase, ma chiuda definitivamente
l’illusione di un ritorno alla stabilità, consegnandoci un mondo in cui la vera
linea di frattura non passa più tra pace e guerra, ma tra chi riesce a reggere
la complessità senza disgregarsi e chi, sotto il peso dell’instabilità
permanente, comincia lentamente a perdere forma, coesione e futuro.
Queste considerazioni sono il prodotto dell’analisi della
ragione che per sua natura è prudente, disincantata, pessimista, perché la
ragione, quando osserva la storia e i rapporti di forza, tende a vedere prima
le crepe che le promesse e a riconoscere i limiti prima delle possibilità. Ma
proprio per questo non può e non deve coincidere con la volontà. La volontà non
è chiamata a prevedere, bensì a resistere, a orientare, a scegliere anche
quando il quadro è sfavorevole. Se la ragione avverte dei rischi, l’ottimismo
non è un errore di valutazione ma un atto di responsabilità, una decisione
etica e politica di non consegnare il futuro alla sola inerzia dei conflitti.
In un mondo che sembra organizzarsi intorno all’instabilità permanente,
mantenere l’ottimismo della volontà non significa negare la durezza del reale,
ma affermare che la storia non è mai completamente chiusa e che, anche nei
passaggi più critici, resta aperta la possibilità di deviare, correggere,
ricomporre. Roberto Rapaccini