Mentre Gaza concentra l’attenzione generale per l’impatto immediato del conflitto, la Cisgiordania vive una crisi più silenziosa ma altrettanto corrosiva, fatta di quotidianità che si sbriciola: non un unico fronte, bensì una somma di frizioni che, giorno dopo giorno, cambiano la geografia pratica del vivere, del lavorare, del curarsi, del muoversi. La tensione si addensa soprattutto nel Nord, dove le operazioni militari israeliane si sono ripetute con frequenza con conseguenze che non restano confinate al momento dell’incursione: strade scavate o bloccate, infrastrutture danneggiate, servizi essenziali interrotti a intermittenza, scuole che chiudono, famiglie che rinviano cure e spostamenti perché i tempi e i varchi diventano imprevedibili. In Cisgiordania la sicurezza non è solo un concetto: è un’architettura di barriere, controlli, chiusure temporanee o prolungate, deviazioni obbligate, permessi, e soprattutto un’incertezza cronica. A questo si sovrappone in modo sempre più determinante la violenza dei coloni e la pressione sulle comunità rurali: attacchi a persone, case, mezzi agricoli, alberi, raccolti, con un effetto che va oltre la cronaca nera e diventa una tecnologia dello spostamento, perché colpisce i mezzi di sostentamento e produce la sensazione che restare sia un rischio permanente e non un diritto garantito; quando l’accesso ai campi è limitato, quando il raccolto può essere distrutto o impedito, quando la presenza armata o intimidatoria si ripete, la scelta di abbandonare diventa per alcuni non un’opzione politica ma un esito economico e psicologico. In parallelo l’espansione e la normalizzazione degli insediamenti agiscono come forza di fondo: non solo nuove costruzioni, ma regolarizzazioni, nuove entità amministrative, infrastrutture di collegamento e perimetri di tutela che consolidano. La Cisgiordania finisce così per assomigliare sempre più a un mosaico di isole, dove la continuità territoriale palestinese si assottiglia e la vita ordinaria dipende da corridoi, finestre temporali e autorizzazioni, con l’effetto politico di restringere lo spazio del possibile e, insieme, di alimentare rancore e radicalizzazione. In questo quadro l’Autorità Nazionale Palestinese appare indebolita e contestata: deve governare una realtà frammentata, con margini operativi ridotti, mentre cresce la sfiducia interna e si moltiplicano in alcune aree gruppi armati locali o forme di potere informale che prosperano nei vuoti di legittimità e di servizi; quando lo Stato non riesce a garantire sicurezza e prospettiva, la società si riorganizza come può, e spesso lo fa in modo più duro, più identitario più esposto alla logica della vendetta e della deterrenza. Sul piano economico poi la pressione è costante: restrizioni di movimento, chiusure, incertezza sull’accesso al lavoro e ai mercati, costi di trasporto che aumentano, tempi che si dilatano, investimenti che fuggono; la povertà non è solo un indicatore statistico, è una lente che ingrandisce ogni tensione, perché trasforma una perquisizione in un giorno di salario perso, un blocco stradale in una cura saltata, una demolizione in un indebitamento che dura anni. Per questo la Cisgiordania oggi si può leggere come un processo più che come un evento: una lenta trasformazione in cui operazioni militari, violenza dei coloni, demolizioni, restrizioni e sviluppo degli insediamenti si sommano e producono una annessione di fatto fatta di micro-cambiamenti irreversibili, dove la domanda non è soltanto quanta violenza esploderà domani, ma quanta normalità resterà possibile dopodomani. E qui sta il punto più inquietante: Gaza incendia le coscienze perché è l’urlo; la Cisgiordania logora perché è il rumore di fondo che diventa struttura, e quando la struttura cambia, cambiano anche le soluzioni disponibili, perché ogni mese che passa rende più difficile immaginare un territorio contiguo, una governance stabile, un accordo che non sia solo una tregua amministrata. Quanto alle prospettive, il quadro più realistico – se non intervengono svolte politiche nette – è quello di una prosecuzione per inerzia dell’attuale traiettoria: operazioni ricorrenti nel Nord, restrizioni mobili ma pervasive, crescita o consolidamento degli insediamenti e ulteriore frammentazione della continuità territoriale, con una vita civile sempre più intermittente; in questo scenario la Cisgiordania non esplode necessariamente in un’unica grande fiammata, ma si consuma in una combustione lenta che spinge giovani e comunità vulnerabili verso due sbocchi opposti, emigrazione o radicalizzazione. Un secondo esito possibile è un indebolimento ulteriore dell’Autorità Palestinese fino a una perdita di presa su porzioni di territorio, con la conseguenza di un aumento di attori armati locali e di interventi esterni più frequenti e più profondi: una spirale in cui la sicurezza diventa l’unica grammatica e la politica resta senza verbi. Il terzo possibile esito, più decisivo sul lungo periodo, riguarda la fisica del territorio: se continuano i passaggi amministrativi e infrastrutturali che normalizzano insediamenti, barriere e corridoi, si consolida una realtà de facto che restringe lo spazio negoziale, perché ciò che viene reso permanente sul terreno diventa sempre più difficile da disfare con un accordo; in altre parole il rischio non è soltanto un peggioramento umanitario, ma la cristallizzazione di un assetto in cui la Cisgiordania assomiglia a un arcipelago e qualunque formula futura – due Stati, confederazione, autonomia ampliata – deve fare i conti con un mosaico che rende ogni soluzione più costosa, più fragile e più contestata. La variabile che può cambiare davvero la traiettoria è politica e internazionale insieme: o si crea un perimetro credibile di de-escalation e tutela della vita quotidiana, oppure la normalità continuerà a spostarsi verso il basso e il futuro assomiglierà sempre meno a un processo di pace e sempre più a una gestione permanente dell’instabilità. C’è anche la possibilità di trasformare la Cisgiordania da spazio di contenimento a spazio di ricostruzione civile, cioè di costruire una cornice riconoscibile in cui le persone possano tornare a prevedere il domani e le istituzioni possano riacquistare credibilità. Un perimetro credibile è prima di tutto un insieme di impegni che ridà senso alla parola affidabilità: tempi certi per la mobilità, accesso regolare a lavoro, scuola e sanità, ripristino di infrastrutture e servizi, un’economia che respiri non per eccezione ma per regola, e soprattutto la percezione che il diritto non sia un dettaglio negoziabile ma il fondamento della convivenza. La dimensione internazionale entra qui come garanzia e come incentivo: garanzia, perché senza un presidio politico i progressi diventano reversibili; incentivo, perché strumenti finanziari, commerciali e diplomatici possono premiare comportamenti cooperativi e disincentivare quelli distruttivi, spostando il costo dell’intransigenza e rendendo conveniente la stabilità. In questa lettura, la de-escalation non è un gesto morale ma una tecnologia di governo: crea fiducia, abbassa il tasso di paura, e permette alle leadership – palestinese e israeliana di parlare alla propria opinione pubblica non con la retorica dell’assedio, ma con la lingua concreta dei vantaggi collettivi. Se questa cornice si regge la Cisgiordania può tornare a essere un luogo in cui la politica riconquista il primato sulla reazione, perché quando la vita quotidiana si ricompone la società smette di oscillare tra rancore e rassegnazione e ricomincia a investire: nel lavoro, nell’istruzione, nelle imprese, nelle relazioni sociali.
Roberto Rapaccini
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