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PAESI DELLA LEGA ARABA

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La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

martedì 9 dicembre 2025

I BENI CONGELATI DI PROPRIETÀ DELLA RUSSIA - IL BELGIO E L’IMPOTENZA DELL’UNIONE EUROPEA




Il nodo dei beni russi congelati è la fotografia perfetta dell’impasse europea nel finale di partita ucraino, perché mette a nudo il divario tra la potenza potenziale dell’Ue e la sua incapacità di esercitarla. Dopo il 24 febbraio 2022 l’Unione ha immobilizzato una quantità enorme di risorse della Banca centrale russa, soprattutto attraverso il grande deposito titoli Euroclear in Belgio: si tratta di riserve valutarie e titoli che prima dell’invasione erano considerati normali strumenti di gestione della liquidità internazionale e che, dall’oggi al domani, sono diventati un’arma economica. Quei soldi, sul piano formale, restano di proprietà di Mosca: non sono stati confiscati, non sono stati trasferiti a un fondo occidentale, ma non possono essere spostati né utilizzati dal loro legittimo titolare. Nel frattempo continuano a generare rendimenti finanziari: interessi, cedole, utili di gestione che non sono un dettaglio tecnico, ma un flusso stabile e prevedibile che potrebbe costituire una leva formidabile per sostenere lo sforzo bellico ucraino e, un domani, la ricostruzione di un Paese devastato. Sulla carta, la logica appare quasi lineare: la Russia ha aggredito militarmente un vicino, ha violato la Carta delle Nazioni Unite, ha causato danni economici e umani incalcolabili, quindi è ragionevole che una parte delle sue risorse estere bloccate venga utilizzata come forma di riparazione anticipata, o almeno come garanzia per prestiti destinati a Kiev. Chi ha provocato il danno deve contribuire a finanziarne il risarcimento; gli strumenti giuridici internazionali non possano essere usati  per proteggere gli aggressori, ma per tutelare le vittime. Nella pratica, però, l’Europa si è infilata in un labirinto giuridico e politico da cui non riesce a uscire. Il primo compromesso è timido e difensivo: non si tocca il capitale, per evitare l’accusa di esproprio, e si decide di utilizzare solo gli utili generati dagli asset congelati per finanziare prestiti a favore dell’Ucraina. È una soluzione che consente ai governi di dire all’opinione pubblica “stiamo facendo qualcosa” senza compiere il passo politicamente e giuridicamente più impegnativo, quello di trasformare davvero quel tesoro immobilizzato in uno strumento di pressione strutturale sulla Russia e in una garanzia robusta per il futuro ucraino. In altre parole, si monetizza il margine più innocuo di quei beni, lasciando intatto il cuore del problema, cioè la destinazione del capitale. Quando la Commissione von der Leyen prova a fare un salto di qualità – immaginando un grande prestito comune, garantito proprio da quelle riserve, per finanziare il bilancio ucraino e il suo sforzo bellico nei prossimi anni – emergono tutti i punti deboli del sistema europeo. Dal punto di vista tecnico l’operazione non è impossibile: si tratterebbe di emettere debito congiunto, usando le riserve congelate come collaterale, con la logica che, in caso di accordo di pace e di riconoscimento di responsabilità da parte di Mosca, quelle stesse risorse verrebbero destinate alle riparazioni, chiudendo il cerchio. Ma appena si passa dalla teoria alla pratica, affiorano le resistenze. Il Belgio, che ospita Euroclear e quindi concentra quasi tutto il rischio legale, teme di diventare il bersaglio principale delle cause russe e dei contenziosi arbitrali per decenni: se qualcosa va storto, se un arbitrato internazionale dovesse stabilire che l’operazione configura un esproprio mascherato, a risponderne non è un’entità astratta chiamata “Europa”, ma un governo nazionale con i suoi tribunali, il suo bilancio e le sue responsabilità politiche. Per Bruxelles non è solo una questione di principio, ma di calcolo: perché dovrebbe farsi carico del rischio per tutti, quando la decisione è collettiva e i benefici sono condivisi? La Banca centrale europea, dal canto suo, solleva un’altra obiezione di lungo periodo che va oltre il caso russo: se l’euro viene percepito come una valuta che può armarsi troppo facilmente contro chi cade in disgrazia geopolitica, altri Paesi potrebbero decidere domani di non detenere più le loro riserve in euro, o di ridurle sensibilmente. L’idea di usare le riserve di una banca centrale straniera come garanzia per un’operazione politica, per quanto legittimata dall’aggressione russa, rischia di incrinare la reputazione dell’euro come valuta sicura, neutrale, affidabile nel tempo. In altre parole il tentativo di punire la Russia rischia, se mal gestito, di indebolire il ruolo internazionale dell’euro e di spingere future potenze non allineate a cercare rifugio in altre valute o in altri strumenti finanziari. A tutto questo si aggiunge il vincolo politico interno: l’uso di questi strumenti richiede consenso tra governi che hanno sensibilità molto diverse sulla guerra, sui rapporti con Mosca e sul grado di rischio giuridico accettabile. Paesi dell’Est, che percepiscono la minaccia russa sulla propria pelle, sarebbero più inclini a usare fino in fondo la leva finanziaria; altri, più esposti sul piano commerciale o energetico, sono più cauti; altri ancora temono la reazione di opinioni pubbliche stanche della guerra e diffidenti verso nuovi schemi di debito comune. Il risultato è che ogni proposta ambiziosa viene limata, rinviata, svuotata, finché non resta che un compromesso minimo, spesso già superato dagli eventi e insufficiente rispetto alle esigenze ucraine. Nel frattempo gli Stati Uniti ragionano in modo completamente diverso: guardano a quegli stessi beni russi non solo come a una punizione o a una garanzia, ma come a una possibile moneta di scambio in un negoziato complessivo con Mosca sulla fine del conflitto e sulla ricostruzione. Nell’ottica americana le risorse congelate possono diventare un elemento di un grande pacchetto in cui la Russia accetta un cessate il fuoco e alcuni vincoli sul proprio comportamento futuro, e in cambio riacquista gradualmente accesso a una parte dei fondi, magari convogliati in strumenti finanziari congiunti, gestiti insieme a istituzioni occidentali, che finanziano la ricostruzione ucraina e, allo stesso tempo, creano interessi economici condivisi. È una logica di realpolitik pura, che riduce la dimensione punitiva e accentua quella transazionale: il denaro non come sanzione permanente, ma come incentivo dentro un compromesso. Per Kiev e per molti europei questo è un passaggio problematico, perché rischia di trasformare i beni congelati da simbolo della responsabilità russa a componente di un accomodamento che in parte legittima lo status quo territoriale. Qui sta il punto politico: mentre Washington e il Cremlino ragionano su come utilizzare quei fondi per ridisegnare l’equilibrio del dopoguerra, l’Unione europea – che è il luogo dove materialmente quei soldi sono bloccati e che sarà l’area più impattata dall’esito del conflitto – appare incapace di decidere se voglia usarli come arma di pressione, come garanzia strutturale per l’Ucraina, o come pedina negoziale futura. Ogni opzione ha una sua coerenza, ma l’Europa non ne sceglie davvero nessuna e resta sospesa ‘a metà strada’  che equivale, nei fatti, all’inerzia. Così il principale potenziale strumento di potere europeo resta intrappolato tra prudenza giuridica, paure sistemiche e divisioni interne, come una carta poderosa che nessuno osa calare sul tavolo per timore delle conseguenze. E nella tragedia ucraina il continente che dovrebbe avere il massimo interesse a un esito stabile e giusto finisce ai margini del tavolo, spettatore di partite in cui i pezzi li muovono altri e in cui i soldi che giacciono nei suoi caveaux diventano materia prima di strategie decise altrove.  Roberto Rapaccini