Il
nodo dei beni russi congelati è la fotografia perfetta dell’impasse europea nel
finale di partita ucraino, perché mette a nudo il divario tra la potenza
potenziale dell’Ue e la sua incapacità di esercitarla. Dopo il 24 febbraio 2022
l’Unione ha immobilizzato una quantità enorme di risorse della Banca centrale
russa, soprattutto attraverso il grande deposito titoli Euroclear in Belgio: si
tratta di riserve valutarie e titoli che prima dell’invasione erano considerati
normali strumenti di gestione della liquidità internazionale e che, dall’oggi
al domani, sono diventati un’arma economica. Quei soldi, sul piano formale,
restano di proprietà di Mosca: non sono stati confiscati, non sono stati
trasferiti a un fondo occidentale, ma non possono essere spostati né utilizzati
dal loro legittimo titolare. Nel frattempo continuano a generare rendimenti
finanziari: interessi, cedole, utili di gestione che non sono un dettaglio
tecnico, ma un flusso stabile e prevedibile che potrebbe costituire una leva
formidabile per sostenere lo sforzo bellico ucraino e, un domani, la
ricostruzione di un Paese devastato. Sulla carta, la logica appare quasi
lineare: la Russia ha aggredito militarmente un vicino, ha violato la Carta
delle Nazioni Unite, ha causato danni economici e umani incalcolabili, quindi è
ragionevole che una parte delle sue risorse estere bloccate venga utilizzata
come forma di riparazione anticipata, o almeno come garanzia per prestiti
destinati a Kiev. Chi ha provocato il danno deve contribuire a finanziarne il
risarcimento; gli strumenti giuridici internazionali non possano essere
usati per proteggere gli aggressori, ma per
tutelare le vittime. Nella pratica, però, l’Europa si è infilata in un
labirinto giuridico e politico da cui non riesce a uscire. Il primo compromesso
è timido e difensivo: non si tocca il capitale, per evitare l’accusa di
esproprio, e si decide di utilizzare solo gli utili generati dagli asset
congelati per finanziare prestiti a favore dell’Ucraina. È una soluzione che
consente ai governi di dire all’opinione pubblica “stiamo facendo qualcosa”
senza compiere il passo politicamente e giuridicamente più impegnativo, quello
di trasformare davvero quel tesoro immobilizzato in uno strumento di pressione
strutturale sulla Russia e in una garanzia robusta per il futuro ucraino. In
altre parole, si monetizza il margine più innocuo di quei beni, lasciando
intatto il cuore del problema, cioè la destinazione del capitale. Quando la
Commissione von der Leyen prova a fare un salto di qualità – immaginando un
grande prestito comune, garantito proprio da quelle riserve, per finanziare il
bilancio ucraino e il suo sforzo bellico nei prossimi anni – emergono tutti i
punti deboli del sistema europeo. Dal punto di vista tecnico l’operazione non è
impossibile: si tratterebbe di emettere debito congiunto, usando le riserve
congelate come collaterale, con la logica che, in caso di accordo di pace e di
riconoscimento di responsabilità da parte di Mosca, quelle stesse risorse
verrebbero destinate alle riparazioni, chiudendo il cerchio. Ma appena si passa
dalla teoria alla pratica, affiorano le resistenze. Il Belgio, che ospita
Euroclear e quindi concentra quasi tutto il rischio legale, teme di diventare
il bersaglio principale delle cause russe e dei contenziosi arbitrali per
decenni: se qualcosa va storto, se un arbitrato internazionale dovesse
stabilire che l’operazione configura un esproprio mascherato, a risponderne non
è un’entità astratta chiamata “Europa”, ma un governo nazionale con i suoi
tribunali, il suo bilancio e le sue responsabilità politiche. Per Bruxelles non
è solo una questione di principio, ma di calcolo: perché dovrebbe farsi carico
del rischio per tutti, quando la decisione è collettiva e i benefici sono
condivisi? La Banca centrale europea, dal canto suo, solleva un’altra obiezione
di lungo periodo che va oltre il caso russo: se l’euro viene percepito come una
valuta che può armarsi troppo facilmente contro chi cade in disgrazia
geopolitica, altri Paesi potrebbero decidere domani di non detenere più le loro
riserve in euro, o di ridurle sensibilmente. L’idea di usare le riserve di una
banca centrale straniera come garanzia per un’operazione politica, per quanto
legittimata dall’aggressione russa, rischia di incrinare la reputazione
dell’euro come valuta sicura, neutrale, affidabile nel tempo. In altre parole
il tentativo di punire la Russia rischia, se mal gestito, di indebolire il
ruolo internazionale dell’euro e di spingere future potenze non allineate a
cercare rifugio in altre valute o in altri strumenti finanziari. A tutto questo
si aggiunge il vincolo politico interno: l’uso di questi strumenti richiede
consenso tra governi che hanno sensibilità molto diverse sulla guerra, sui
rapporti con Mosca e sul grado di rischio giuridico accettabile. Paesi
dell’Est, che percepiscono la minaccia russa sulla propria pelle, sarebbero più
inclini a usare fino in fondo la leva finanziaria; altri, più esposti sul piano
commerciale o energetico, sono più cauti; altri ancora temono la reazione di
opinioni pubbliche stanche della guerra e diffidenti verso nuovi schemi di
debito comune. Il risultato è che ogni proposta ambiziosa viene limata,
rinviata, svuotata, finché non resta che un compromesso minimo, spesso già
superato dagli eventi e insufficiente rispetto alle esigenze ucraine. Nel
frattempo gli Stati Uniti ragionano in modo completamente diverso: guardano a
quegli stessi beni russi non solo come a una punizione o a una garanzia, ma come
a una possibile moneta di scambio in un negoziato complessivo con Mosca sulla
fine del conflitto e sulla ricostruzione. Nell’ottica americana le risorse
congelate possono diventare un elemento di un grande pacchetto in cui la Russia
accetta un cessate il fuoco e alcuni vincoli sul proprio comportamento futuro,
e in cambio riacquista gradualmente accesso a una parte dei fondi, magari
convogliati in strumenti finanziari congiunti, gestiti insieme a istituzioni
occidentali, che finanziano la ricostruzione ucraina e, allo stesso tempo,
creano interessi economici condivisi. È una logica di realpolitik pura, che
riduce la dimensione punitiva e accentua quella transazionale: il denaro non
come sanzione permanente, ma come incentivo dentro un compromesso. Per Kiev e
per molti europei questo è un passaggio problematico, perché rischia di
trasformare i beni congelati da simbolo della responsabilità russa a componente
di un accomodamento che in parte legittima lo status quo territoriale. Qui sta
il punto politico: mentre Washington e il Cremlino ragionano su come utilizzare
quei fondi per ridisegnare l’equilibrio del dopoguerra, l’Unione europea – che
è il luogo dove materialmente quei soldi sono bloccati e che sarà l’area più
impattata dall’esito del conflitto – appare incapace di decidere se voglia
usarli come arma di pressione, come garanzia strutturale per l’Ucraina, o come
pedina negoziale futura. Ogni opzione ha una sua coerenza, ma l’Europa non ne
sceglie davvero nessuna e resta sospesa ‘a metà strada’ che equivale, nei fatti, all’inerzia. Così il
principale potenziale strumento di potere europeo resta intrappolato tra
prudenza giuridica, paure sistemiche e divisioni interne, come una carta
poderosa che nessuno osa calare sul tavolo per timore delle conseguenze. E
nella tragedia ucraina il continente che dovrebbe avere il massimo interesse a
un esito stabile e giusto finisce ai margini del tavolo, spettatore di partite
in cui i pezzi li muovono altri e in cui i soldi che giacciono nei suoi caveaux
diventano materia prima di strategie decise altrove. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA
TESTO SC.
martedì 9 dicembre 2025
I BENI CONGELATI DI PROPRIETÀ DELLA RUSSIA - IL BELGIO E L’IMPOTENZA DELL’UNIONE EUROPEA
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