RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

domenica 2 novembre 2025

L’IDEA CHE LA SOCIETÀ SI STIA DISGREGANDO NEL MONDO CHE STA CAMBIANDO DIREZIONE





C’è una sensazione diffusa, quasi fisica, che attraversa il tempo presente: l’idea che l’ordine mondiale a cui eravamo abituati si stia disgregando e che, al suo posto, stia emergendo qualcosa di nuovo ma ancora privo di forma. Questa percezione non nasce solo dai conflitti o dalle crisi economiche, ma principalmente da un mutamento più profondo che tocca le fondamenta stesse del sistema internazionale. Per decenni il mondo ha ruotato attorno a un unico centro egemonico in grado di garantire regole, stabilità, linguaggi comuni e un certo grado di prevedibilità. Quel centro non era solo politico o militare: era anche culturale e simbolico. Esprimeva un’idea di ordine fondata sul primato della razionalità economica, sulla fiducia nel progresso tecnologico e sulla convinzione che la diffusione della democrazia liberale avrebbe prodotto pace e prosperità. In quella fase, la globalizzazione appariva come un destino. Si credeva che la circolazione dei capitali e delle idee avrebbe dissolto le differenze, rendendo il mondo un unico mercato regolato da norme condivise. L’egemonia non era percepita come dominio, ma superficialmente come garanzia di equilibrio e di democrazia. L’ordine era considerato universale perché la sua narrazione coincideva con il linguaggio del progresso. Oggi quel patto implicito si è logorato. Le promesse di inclusione si sono scontrate con le disuguaglianze, le guerre periferiche, le crisi energetiche e ambientali. Le stesse istituzioni che rappresentavano la governance globale sembrano incapaci di interpretare la complessità del presente. Il centro egemonico non scompare, ma perde il monopolio della legittimità: il suo potere non è più riconosciuto come universale, ma come parziale. Si apre così una fase di transizione, un interregno in cui il vecchio ordine non funziona più e il nuovo non ha ancora trovato la propria forma. È un tempo di ridefinizione, dove la competizione tra Stati si intreccia con quella tra modelli culturali, civiltà e sistemi tecnologici. Non c’è più un unico asse attorno a cui ruota il mondo, ma una pluralità di centri che si osservano, si contendono influenza, si scambiano tecnologia e potere. La disgregazione dell’ordine non significa caos, ma moltiplicazione delle prospettive. È la fine dell’illusione di una modernità lineare, uguale per tutti, e l’inizio di una modernità plurale, in cui coesistono visioni diverse del mondo, del progresso e della libertà. Ciò che chiamiamo crisi è in realtà il linguaggio di un mondo che sta cercando una nuova grammatica della convivenza. Il modello che aveva dominato il secondo dopoguerra si fondava su una sola potenza in grado di esercitare controllo economico, militare e simbolico. Quel modello non regge più. Il mondo si sta riorganizzando attorno a una pluralità di poli regionali che si osservano, si contendono gli spazi, si imitano e si fronteggiano. La geografia, che per anni sembrava superata dall’illusione digitale, torna a essere decisiva. L’Europa non è più il cuore del mondo, ma non è nemmeno un attore marginale. Si trova a metà tra l’eredità storica di potenze ormai indebolite e la necessità di costruire una nuova identità strategica. La sua forza economica non basta se non è accompagnata da una visione politica comune. Il continente rischia di restare un laboratorio di regole senza potere o, peggio, un campo di manovra per interessi altrui. Eppure, l’Europa dispone ancora di risorse decisive: una tradizione diplomatica, una cultura dell’equilibrio, una memoria profonda. Per tornare protagonista deve riconquistare autonomia tecnologica, energetica e culturale. Il conflitto contemporaneo si combatte con la moneta, con i dati, con l’energia, con la manipolazione delle percezioni. È una guerra che non ha fronti, ma conseguenze globali. Ogni infrastruttura può diventare un’arma. La guerra ibrida non distrugge le città, ma mina la fiducia, altera le informazioni, paralizza i sistemi economici. È una forma di ostilità costante che trasforma la competizione in condizione permanente. Il cyberspazio diventa il nuovo terreno di conquista, dove la potenza si misura nella capacità di controllare e difendere i dati. La sfida del XXI secolo è tecnologica. I semiconduttori, le reti digitali, l’intelligenza artificiale sono oggi le infrastrutture della sovranità. La geopolitica dei dati sostituisce quella dei territori, ma non la annulla: la trasforma. Chi controlla la tecnologia controlla il tempo, non solo lo spazio. E in questa nuova dimensione le alleanze si costruiscono attorno a piattaforme e standard, non più soltanto a confini e trattati. Sul palcoscenico globale emergono civiltà che propongono modelli alternativi di potere. Non si tratta soltanto di economie emergenti, ma di visioni del mondo fondate su altri principi di legittimità: comunità, identità, sovranità culturale. L’idea occidentale di progresso lineare e universale non è più condivisa: si moltiplicano i centri di produzione di senso, di tecnologia e di potere. Ne risulta un mondo multipolare instabile, dove la cooperazione e la competizione convivono in un equilibrio precario. La crisi delle istituzioni internazionali, la frammentazione delle catene produttive, la corsa alla sicurezza tecnologica sono segnali evidenti di un mutamento strutturale. La globalizzazione non finisce: si riformula. Da orizzonte universale diventa selettiva, fatta di blocchi, sfere d’influenza, reti di alleanze pragmatiche. La nuova priorità è la resilienza: garantire approvvigionamenti, difendere infrastrutture, ridurre dipendenze. La politica della sopravvivenza sostituisce quella della crescita illimitata. Viviamo in un tempo di transizione in cui la linearità della storia si è interrotta. La vera sfida oggi non è tornare indietro verso un equilibrio che non esiste più, né cercare una nuova egemonia che replichi le vecchie gerarchie, ma abitare il disordine con consapevolezza. Significa riconoscere che il mutamento non è una parentesi da superare, ma la condizione stessa della modernità globale. Occorre imparare  a interpretare la transitorietà come spazio di possibilità, non solo come minaccia. Abitare il disordine vuol dire accettare che il mondo non possa essere più spiegato da un’unica narrazione, ma da una pluralità di voci, culture, logiche e visioni. È l’epoca della simultaneità, in cui convivono la velocità digitale e la lentezza delle culture, l’iper-connessione e la frammentazione, la conoscenza diffusa e la disinformazione. Forse la crisi dell’ordine mondiale è anche un’occasione di rigenerazione del pensiero politico. Costringe a ripensare il significato di potere, di libertà, di responsabilità collettiva. Obbliga a riscoprire categorie che credevamo superate — comunità, misura, limite — ma anche a inventarne di nuove, capaci di leggere la realtà senza semplificarla. Solo accettando questa dimensione instabile potremo costruire un modo diverso di abitare il mondo: non come spettatori di forze più grandi di noi, ma come soggetti capaci di orientarle, almeno in parte, con la lucidità e la memoria. In fondo la domanda più urgente non è dove stia andando il mondo ma dove vogliamo andare noi, quale direzione scegliere nel mare in movimento della storia. Capire il presente non significa prevedere, ma orientarsi. Significa trasformare il disordine in una forma di conoscenza, e la crisi in un esercizio di responsabilità. E forse proprio qui, nel cuore di questa incertezza, si nasconde la possibilità di una nuova libertà: quella di non subire il tempo, ma di abitarlo con consapevolezza, come chi non teme la notte perché sa che ogni notte prepara un’alba.