C’è una
sensazione diffusa, quasi fisica, che attraversa il tempo presente: l’idea che
l’ordine mondiale a cui eravamo abituati si stia disgregando e che, al suo
posto, stia emergendo qualcosa di nuovo ma ancora privo di forma. Questa
percezione non nasce solo dai conflitti o dalle crisi economiche, ma principalmente
da un mutamento più profondo che tocca le fondamenta stesse del sistema
internazionale. Per decenni il mondo ha ruotato attorno a un unico centro
egemonico in grado di garantire regole, stabilità, linguaggi comuni e un certo
grado di prevedibilità. Quel centro non era solo politico o militare: era anche
culturale e simbolico. Esprimeva un’idea di ordine fondata sul primato della
razionalità economica, sulla fiducia nel progresso tecnologico e sulla
convinzione che la diffusione della democrazia liberale avrebbe prodotto pace e
prosperità. In quella fase, la globalizzazione appariva come un destino. Si
credeva che la circolazione dei capitali e delle idee avrebbe dissolto le
differenze, rendendo il mondo un unico mercato regolato da norme condivise.
L’egemonia non era percepita come dominio, ma superficialmente come garanzia di
equilibrio e di democrazia. L’ordine era considerato universale perché la sua
narrazione coincideva con il linguaggio del progresso. Oggi quel patto
implicito si è logorato. Le promesse di inclusione si sono scontrate con le
disuguaglianze, le guerre periferiche, le crisi energetiche e ambientali. Le
stesse istituzioni che rappresentavano la governance globale sembrano incapaci
di interpretare la complessità del presente. Il centro egemonico non scompare,
ma perde il monopolio della legittimità: il suo potere non è più riconosciuto
come universale, ma come parziale. Si apre così una fase di transizione, un interregno
in cui il vecchio ordine non funziona più e il nuovo non ha ancora trovato la
propria forma. È un tempo di ridefinizione, dove la competizione tra Stati si
intreccia con quella tra modelli culturali, civiltà e sistemi tecnologici. Non
c’è più un unico asse attorno a cui ruota il mondo, ma una pluralità di centri
che si osservano, si contendono influenza, si scambiano tecnologia e potere. La
disgregazione dell’ordine non significa caos, ma moltiplicazione delle
prospettive. È la fine dell’illusione di una modernità lineare, uguale per
tutti, e l’inizio di una modernità plurale, in cui coesistono visioni diverse
del mondo, del progresso e della libertà. Ciò che chiamiamo crisi è in realtà
il linguaggio di un mondo che sta cercando una nuova grammatica della convivenza.
Il modello che aveva dominato il secondo dopoguerra si fondava su una sola
potenza in grado di esercitare controllo economico, militare e simbolico. Quel
modello non regge più. Il mondo si sta riorganizzando attorno a una pluralità
di poli regionali che si osservano, si contendono gli spazi, si imitano e si
fronteggiano. La geografia, che per anni sembrava superata dall’illusione
digitale, torna a essere decisiva. L’Europa non è più il cuore del mondo, ma
non è nemmeno un attore marginale. Si trova a metà tra l’eredità storica di
potenze ormai indebolite e la necessità di costruire una nuova identità
strategica. La sua forza economica non basta se non è accompagnata da una
visione politica comune. Il continente rischia di restare un laboratorio di
regole senza potere o, peggio, un campo di manovra per interessi altrui.
Eppure, l’Europa dispone ancora di risorse decisive: una tradizione
diplomatica, una cultura dell’equilibrio, una memoria profonda. Per tornare
protagonista deve riconquistare autonomia tecnologica, energetica e culturale. Il
conflitto contemporaneo si combatte con la moneta, con i dati, con l’energia,
con la manipolazione delle percezioni. È una guerra che non ha fronti, ma
conseguenze globali. Ogni infrastruttura può diventare un’arma. La guerra
ibrida non distrugge le città, ma mina la fiducia, altera le informazioni,
paralizza i sistemi economici. È una forma di ostilità costante che trasforma
la competizione in condizione permanente. Il cyberspazio diventa il nuovo
terreno di conquista, dove la potenza si misura nella capacità di controllare e
difendere i dati. La sfida del XXI secolo è tecnologica. I semiconduttori, le
reti digitali, l’intelligenza artificiale sono oggi le infrastrutture della
sovranità. La geopolitica dei dati sostituisce quella dei territori, ma non la
annulla: la trasforma. Chi controlla la tecnologia controlla il tempo, non solo
lo spazio. E in questa nuova dimensione le alleanze si costruiscono attorno a
piattaforme e standard, non più soltanto a confini e trattati. Sul palcoscenico
globale emergono civiltà che propongono modelli alternativi di potere. Non si
tratta soltanto di economie emergenti, ma di visioni del mondo fondate su altri
principi di legittimità: comunità, identità, sovranità culturale. L’idea occidentale
di progresso lineare e universale non è più condivisa: si moltiplicano i centri
di produzione di senso, di tecnologia e di potere. Ne risulta un mondo
multipolare instabile, dove la cooperazione e la competizione convivono in un equilibrio
precario. La crisi delle istituzioni internazionali, la frammentazione delle
catene produttive, la corsa alla sicurezza tecnologica sono segnali evidenti di
un mutamento strutturale. La globalizzazione non finisce: si riformula. Da
orizzonte universale diventa selettiva, fatta di blocchi, sfere d’influenza,
reti di alleanze pragmatiche. La nuova priorità è la resilienza: garantire
approvvigionamenti, difendere infrastrutture, ridurre dipendenze. La politica
della sopravvivenza sostituisce quella della crescita illimitata. Viviamo in un
tempo di transizione in cui la linearità della storia si è interrotta. La vera
sfida oggi non è tornare indietro verso un equilibrio che non esiste più, né
cercare una nuova egemonia che replichi le vecchie gerarchie, ma abitare il
disordine con consapevolezza. Significa riconoscere che il mutamento non è una
parentesi da superare, ma la condizione stessa della modernità globale. Occorre
imparare a interpretare la transitorietà
come spazio di possibilità, non solo come minaccia. Abitare il disordine vuol
dire accettare che il mondo non possa essere più spiegato da un’unica
narrazione, ma da una pluralità di voci, culture, logiche e visioni. È l’epoca
della simultaneità, in cui convivono la velocità digitale e la lentezza delle culture,
l’iper-connessione e la frammentazione, la conoscenza diffusa e la
disinformazione. Forse la crisi dell’ordine mondiale è anche un’occasione di
rigenerazione del pensiero politico. Costringe a ripensare il significato di
potere, di libertà, di responsabilità collettiva. Obbliga a riscoprire
categorie che credevamo superate — comunità, misura, limite — ma anche a
inventarne di nuove, capaci di leggere la realtà senza semplificarla. Solo
accettando questa dimensione instabile potremo costruire un modo diverso di
abitare il mondo: non come spettatori di forze più grandi di noi, ma come
soggetti capaci di orientarle, almeno in parte, con la lucidità e la memoria. In
fondo la domanda più urgente non è dove stia andando il mondo ma dove vogliamo
andare noi, quale direzione scegliere nel mare in movimento della storia. Capire
il presente non significa prevedere, ma orientarsi. Significa trasformare il
disordine in una forma di conoscenza, e la crisi in un esercizio di
responsabilità. E forse proprio qui, nel cuore di questa incertezza, si
nasconde la possibilità di una nuova libertà: quella di non subire il tempo, ma
di abitarlo con consapevolezza, come chi non teme la notte perché sa che ogni
notte prepara un’alba.
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA
TESTO SC.
domenica 2 novembre 2025
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