L’intelligenza
artificiale (AI) non rappresenta solo un progresso tecnologico, ma un terreno
di confronto globale. Dentro le sue infrastrutture — reti di calcolo, chip,
data center — si decide una quota fondamentale dell’equilibrio di
potere nel mondo. La sua evoluzione non segue un percorso semplice né
esclusivamente scientifico: è il risultato di intrecci complessi tra vite
umane, strategie nazionali e flussi di capitali. Ogni algoritmo prende forma in
un preciso contesto geopolitico e ogni progresso tecnologico produce una nuova
configurazione del potere. Negli ultimi decenni, l’AI ha vissuto fasi di sviluppo
e momenti di stallo, periodi di grandi aspettative seguiti da improvvisi
rallentamenti. Questa ciclicità pone una questione essenziale: chi detiene
realmente il controllo sulle macchine capaci di apprendere? E, soprattutto, verso
quale fine viene indirizzato il loro apprendimento? Le risposte si intrecciano
con le logiche economiche e militari di alcune potenze mondiali, segnatamente Stati Uniti,
Cina e Taiwan. Gli Stati Uniti
detengono il fulcro dell’innovazione globale, grazie alla rete di università,
fondi di investimento e giganti tecnologici come NVIDIA, Google e Microsoft. La
Cina, al contrario, punta sull’AI come leva di controllo, di gestione politica
e di affermazione tecnologica. Taiwan, infine, costituisce la base concreta
dell’intero sistema: i suoi semiconduttori, prodotti da TSMC, sono gli elementi
fondamentali su cui si regge l’infrastruttura digitale mondiale. La potenza dell’AI scaturisce
dall’incontro tra ricerca scientifica e produzione industriale. Le GPU, le
unità di elaborazione grafica, sono ormai il cuore pulsante delle reti neurali
che formano i modelli linguistici e visivi. Ogni sistema intelligente richiede
ingenti quantità di energia, dati e risorse economiche. La vera competizione
non consiste più solo nello sviluppare algoritmi sempre più complessi, ma nel
mantenere e far funzionare l’intero apparato: impianti industriali, data
center, reti energetiche e catene logistiche mondiali. Chi detiene il
controllo della potenza di calcolo decide il passo dell’innovazione e, di
conseguenza, l’equilibrio globale. Si tratta di una nuova forma di deterrenza,
paragonabile a quella del possesso nucleare, ma fondata su transistor e
algoritmi. L’AI non è solo una questione di potere geopolitico: è anche un tema
culturale ed etico. Le macchine apprendono da ciò che siamo. In questo senso,
l’AI diventa lo specchio più autentico dell’umanità di oggi: riflette i suoi
desideri di grandezza, le sue disuguaglianze, il bisogno di controllo e il
timore di essere sorpassata dalle proprie stesse creazioni. L’umanità risponde a questa nuova realtà
oscillando tra due estremi. Da una parte c’è la fede quasi messianica in un
progresso senza limiti, in grado di sanare ogni male; dall’altra la paura
catastrofica di un’intelligenza destinata a rimpiazzarci. L’AI non è né una
divinità né una minaccia assoluta, ma un mezzo: può servire a liberare o a
soggiogare, a seconda dell’uso che se ne fa. Per questo motivo la questione etica dell’AI è
strettamente legata a quella della sovranità tecnologica. Non basta assicurare
un impiego corretto e responsabile degli algoritmi: occorre stabilire chi li
controlla, chi li finanzia e a quale fine vengono orientati. Ogni piattaforma
di AI incarna una precisa visione di società, più accentratrice, più
controllante o più partecipativa. L’AI ci costringe a interrogarci sul significato
stesso dell’essere umani in un tempo in cui l’intelligenza è divenuta una
risorsa strategica, economica e culturale. Se il Novecento è stato dominato
dall’energia, il nostro secolo è quello dell’informazione. Ma, proprio come
l’energia, anche l’intelligenza necessita di una guida: va gestita con
lucidità, misura e una prospettiva condivisa. Non si tratta di arrestare il
progresso, bensì di indirizzarlo. Perché non saranno le macchine a determinare
il nostro destino, ma le scelte che noi compiremo su come utilizzarle.
