L’attuale
gestione del conflitto nella Striscia di Gaza solleva interrogativi, non solo
sulla strategia militare adottata dal governo israeliano ma sul futuro stesso
di Israele come democrazia. Dalla nascita della nazione non si era mai assistito
a una guerra così priva di direzione politica, obiettivi definiti, coerenza
operativa. La campagna militare guidata dal primo ministro Netanyahu ha evidenziato
un grado di disorganizzazione inedito. Le forze armate israeliane, impegnate in
aree urbane già devastate dai combattimenti, si ritrovano coinvolte in
incursioni ripetitive e inefficaci, con gravi perdite militari e un numero
impressionante di vittime civili. Azioni in zone come Gaza City, Jabalia e Khan
Yunis, non sono caratterizzate da un progresso strategico, ma solo da un
crescente logoramento. Invece di
disarticolare Hamas, l’effetto più tangibile delle azioni israeliane è
l’aggravarsi della crisi umanitaria, con il rischio che le operazioni diventino
una campagna punitiva, svincolata dai principi della legittima difesa, sempre
più identificabile con la volontà di annichilimento del nemico anche a costo di
sacrificare innocenti. L’allarme proviene anche da Stati tradizionalmente
vicini a Israele come Francia, Regno Unito, Paesi Bassi, Italia e Canada. Il
presidente Macron ha espresso pubblicamente preoccupazioni per una deriva che
potrebbe isolare Israele a livello globale. Fino a pochi mesi fa, si poteva
ancora sostenere che l’alto numero di vittime civili fosse frutto di errori
tragici e scelte militari discutibili. Oggi, alla luce di dichiarazioni
pubbliche rilasciate da personaggi politici — che parlano apertamente della
necessità di affamare Gaza o che equiparano l’intera popolazione palestinese a
Hamas — questa narrazione risulta sempre meno difendibile. L’adozione di misure
come il blocco degli aiuti umanitari essenziali, l’ostruzione sistematica di
convogli sanitari, o la distruzione di infrastrutture civili, non può essere
giustificata né come necessità bellica né come errore logistico. Si configura
sempre più chiaramente come una forma di punizione collettiva, vietata dal diritto
internazionale. Quando esponenti di governo invocano apertamente l’annientamento
di intere comunità o la distruzione sistematica di villaggi, si oltrepassa il
confine che separa la retorica bellica dalla complicità in crimini gravi. Questa
radicalizzazione politica non è soltanto pericolosa per chi ne è bersaglio, ma
mina alle fondamenta l’identità democratica di Israele. Non si può invocare la
legittima difesa mentre si violano sistematicamente norme internazionali e
principi umanitari. Anche sul piano interno la società israeliana vive un
momento di crescente lacerazione. L’unità nazionale, spesso elemento di
coesione in tempi di guerra, oggi appare fragile. Sempre più cittadini
esprimono sfiducia verso un governo percepito come incapace di esprimere una
visione comune. In Cisgiordania la violenza da parte di coloni estremisti si è
intensificata. Episodi di aggressione, incendi dolosi, e vere e proprie
dichiarazioni di pulizia etnica sono spesso minimizzati. Anche in questo caso
la responsabilità delle istituzioni è evidente: uno Stato democratico non può
restare in silenzio di fronte a manifestazioni pubbliche che inneggiano alla distruzione
di intere comunità. Preoccupano anche le notizie su comportamenti irregolari da
parte delle truppe: uso eccessivo della forza, demolizioni arbitrarie, episodi
di saccheggio. Si tratta di fatti che non solo violano i codici militari, ma
compromettono la credibilità dell’esercito israeliano, storicamente percepito
come un’istituzione professionale e rigorosa. Servono inchieste serie,
indipendenti, e un impegno concreto per riaffermare la legalità all’interno
delle forze armate. Pertanto Israele si trova davanti a un bivio. Proseguire su
questa strada significa avviarsi verso un isolamento diplomatico crescente, una
crisi morale interna, e possibili conseguenze legali sul piano internazionale.
Ma non tutto è perduto. È ancora possibile invertire la rotta, ristabilire il
primato del diritto, rientrare in un quadro di legalità internazionale e ricostruire
una politica estera e interna basata su valori condivisi. Serve un cambiamento
profondo, non solo tattico ma politico e culturale. Occorre recuperare una
leadership che abbia il coraggio di riconoscere gli errori, di ascoltare le
critiche sincere e di costruire un futuro che non si fondi sull’eterna guerra,
ma sulla coesistenza, la sicurezza reciproca e la dignità umana.