Di fronte a un conflitto che da mesi
devasta la Striscia di Gaza e paralizza ogni prospettiva di pace, le recenti
dichiarazioni del ministro israeliano Bezalel Smotrich hanno avuto un impatto
dirompente sulla scena diplomatica internazionale. Come riportato da The
Guardian e Fox News il ministro ha affermato che Gaza sarà completamente
distrutta, aggiungendo che i civili palestinesi verranno trasferiti nel sud, in
una zona priva di esponenti di Hamas e di infiltrazioni di movimenti terroristici,
e da lì partiranno verso Paesi terzi. Tali dichiarazioni sono state
interpretate da numerosi osservatori e analisti come un segnale di una
strategia che potrebbe andare oltre la neutralizzazione di Hamas, lasciando
intravedere l’intenzione – o almeno l'effetto – di una trasformazione radicale
e forse duratura del territorio. Sul piano operativo, secondo l’Ufficio delle
Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) e organizzazioni come Human
Rights Watch, Israele avrebbe istituito ampie zone cuscinetto lungo i confini settentrionali
e orientali della Striscia di Gaza. Tali aree, secondo queste fonti, si
estenderebbero anche per diversi chilometri e sarebbero inaccessibili alla
popolazione civile sfollata, rendendo di fatto impossibile il ritorno di decine
di migliaia di palestinesi. Alcuni rapporti giornalistici internazionali
segnalano inoltre la presenza continuativa di truppe israeliane in diverse di
queste zone evacuate. Pur in assenza di una dichiarazione ufficiale che attesti
l’intenzione di un’occupazione permanente di Gaza, alcuni analisti politici
ritengono che la combinazione di distruzione infrastrutturale, sfollamenti di
massa e mancato ritorno dei civili potrebbe preludere a un controllo prolungato
del territorio. In tale ambito alcuni giuristi e organizzazioni per i diritti
umani, anche nel contesto dei procedimenti presso la Corte Internazionale di
Giustizia, hanno sollevato l’ipotesi che le misure in atto possano configurarsi
come una forma di ingegneria demografica forzata, anche se non esisterebbero,
al momento, pronunce giudiziarie definitive. L’operazione militare israeliana attualmente
in corso è stata denominata Carri di Gedeone: un nome carico di riferimenti
simbolici e religiosi. Nella Bibbia Gedeone è un giudice e condottiero scelto
da Dio per liberare Israele dai Madianiti, oppressori stranieri. La vittoria,
ottenuta con un piccolo esercito grazie all’intervento divino, rappresenta un
archetipo biblico di guerra considerata giusta e sacra nella tradizione
religiosa israelitica. La scelta di questo nome, secondo molti analisti, non è
casuale: intende evocare l’idea di un conflitto legittimo e necessario, contro
un nemico rappresentato non solo come minaccia politica, ma come incarnazione
del male assoluto. A oggi, secondo fonti internazionali, oltre il 70% del
territorio della Striscia di Gaza è sotto controllo militare israeliano o
soggetto a ordini di evacuazione. Secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni
Unite per gli Affari Umanitari - incaricato di monitorare l’assistenza umanitaria in situazioni di crisi
complesse; a Gaza coordina l'assistenza alle popolazioni colpite, monitora lo
stato degli sfollati, valuta i danni e segnala impedimenti all’accesso degli
aiuti umanitari - attualmente le vittime palestinesi superano i 52.000 morti,
con centinaia di migliaia di feriti, orfani e sfollati interni. Il blocco
totale imposto il 2 marzo ha reso impossibile l’accesso regolare a beni
essenziali come acqua, cibo, medicinali e carburante. Ospedali e infrastrutture
civili risultano gravemente danneggiati, e oltre due milioni di persone vivono
in condizioni che l’ONU definisce prossime alla carestia. In tale contesto
umanitario, le parole del ministro Smotrich assumono una portata allarmante. La
dura proposta di trasferire i civili palestinesi verso Paesi terzi è stata
fortemente respinta da Egitto e Giordania, che hanno dichiarato di non voler
collaborare a questo piano che, secondo alcuni esperti legali e ONG
internazionali, potrebbe essere interpretato come una forma di pulizia etnica se
attuato su larga scala e con modalità coercitive. Sul piano giuridico, le
dichiarazioni di Smotrich potrebbero costituire un elemento rilevante nel
procedimento in corso presso la Corte Internazionale di Giustizia, che ha già
emesso misure provvisorie ordinando a Israele di prevenire atti genocidari e di
garantire l’accesso umanitario alla Striscia. Israele ha sempre respinto
l’accusa di genocidio, ma, secondo alcuni esperti, dichiarazioni come quelle di
Smotrich potrebbero essere interpretate come indicazioni di forme di
deportazione, non consentite dai contenuti della Convenzione del 1948
(formalmente nota come Convenzione per la prevenzione e la repressione del
delitto di genocidio). Parallelamente, la crescente durezza della linea
israeliana sta producendo una frattura diplomatica con diversi alleati storici.
La Francia ha denunciato pubblicamente violazioni del diritto umanitario, il
Regno Unito ha preso le distanze dall’espansione dell’operazione militare,
mentre il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ha espresso allarme
per una strategia che rischia di causare ulteriori perdite civili e la
distruzione totale della Striscia di Gaza. Negli Stati Uniti, storicamente il
principale sostenitore politico e militare di Israele, si rilevano crepe nel
consenso. Il presidente Donald Trump ha finora evitato critiche dirette
all’azione militare israeliana, continuando ad attribuire la responsabilità
della crisi a Hamas. Tuttavia, crescono le pressioni interne – provenienti da
esponenti del Congresso, da settori della società civile, da studenti e
accademici, e dalla diaspora araba e musulmana – affinché Washington adotti una
posizione più chiara e orientata alla tutela dei diritti umani. Già nel 2024
erano emersi segnali concreti di divisioni politiche e sociali riguardo al
sostegno incondizionato a Israele. Anche all’interno di Israele, alcuni ex alti
ufficiali, accademici e gruppi per i diritti civili hanno espresso
preoccupazione per la direzione dell’operazione militare, chiedendo una
strategia alternativa che non comprometta l’immagine internazionale del Paese. Il
rischio per Israele è quello di inseguire obiettivi che consentano una vittoria
militare che secondo alcuni osservatori internazionali, potrebbe tuttavia tradursi
in una sconfitta diplomatica e morale, con effetti duraturi sulla sua
legittimità internazionale. L’assenza di un piano politico post-bellico
credibile, inoltre, sta generando un vuoto di potere che potrebbe alimentare
ulteriori cicli di radicalizzazione e violenza. La distruzione della società
civile dei palestinesi non cancellerà la loro identità nazionale, né il loro desiderio
di autodeterminazione: al contrario, potrebbe rafforzarlo, radicalizzandolo
ulteriormente e minacciando l’intera stabilità regionale. Le parole di
Smotrich, sebbene estreme, non possono essere archiviate come semplice
retorica. Riflettono una tendenza concreta e ideologica di una parte del
governo israeliano, orientata non verso una soluzione negoziale, ma verso una
ridefinizione unilaterale – e secondo alcune interpretazioni, potenzialmente
violenta – della realtà territoriale e demografica del conflitto. In questo
scenario, la comunità internazionale, le istituzioni sovranazionali e le
democrazie liberali hanno una responsabilità storica: intervenire prima che
Gaza venga cancellata non solo fisicamente, ma anche come idea, come popolo e
come memoria. Se Gaza venisse ‘cancellata’ c’è il rischio che si produca non solo un deserto politico, ma una crisi
etica di portata storica per la comunità mondiale. RR
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
sabato 10 maggio 2025
GAZA, LA LUNGA STRATEGIA IRREVERSIBILE TRA CRISI UMANITARIA E DIRITTO INTERNAZIONALE
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