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PAESI DELLA LEGA ARABA

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La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

sabato 10 maggio 2025

GAZA, LA LUNGA STRATEGIA IRREVERSIBILE TRA CRISI UMANITARIA E DIRITTO INTERNAZIONALE




Di fronte a un conflitto che da mesi devasta la Striscia di Gaza e paralizza ogni prospettiva di pace, le recenti dichiarazioni del ministro israeliano Bezalel Smotrich hanno avuto un impatto dirompente sulla scena diplomatica internazionale. Come riportato da The Guardian e Fox News il ministro ha affermato che Gaza sarà completamente distrutta, aggiungendo che i civili palestinesi verranno trasferiti nel sud, in una zona priva di esponenti di Hamas e di infiltrazioni di movimenti terroristici, e da lì partiranno verso Paesi terzi. Tali dichiarazioni sono state interpretate da numerosi osservatori e analisti come un segnale di una strategia che potrebbe andare oltre la neutralizzazione di Hamas, lasciando intravedere l’intenzione – o almeno l'effetto – di una trasformazione radicale e forse duratura del territorio. Sul piano operativo, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA) e organizzazioni come Human Rights Watch, Israele avrebbe istituito ampie zone cuscinetto lungo i confini settentrionali e orientali della Striscia di Gaza. Tali aree, secondo queste fonti, si estenderebbero anche per diversi chilometri e sarebbero inaccessibili alla popolazione civile sfollata, rendendo di fatto impossibile il ritorno di decine di migliaia di palestinesi. Alcuni rapporti giornalistici internazionali segnalano inoltre la presenza continuativa di truppe israeliane in diverse di queste zone evacuate. Pur in assenza di una dichiarazione ufficiale che attesti l’intenzione di un’occupazione permanente di Gaza, alcuni analisti politici ritengono che la combinazione di distruzione infrastrutturale, sfollamenti di massa e mancato ritorno dei civili potrebbe preludere a un controllo prolungato del territorio. In tale ambito alcuni giuristi e organizzazioni per i diritti umani, anche nel contesto dei procedimenti presso la Corte Internazionale di Giustizia, hanno sollevato l’ipotesi che le misure in atto possano configurarsi come una forma di ingegneria demografica forzata, anche se non esisterebbero, al momento, pronunce giudiziarie definitive.  L’operazione militare israeliana attualmente in corso è stata denominata Carri di Gedeone: un nome carico di riferimenti simbolici e religiosi. Nella Bibbia Gedeone è un giudice e condottiero scelto da Dio per liberare Israele dai Madianiti, oppressori stranieri. La vittoria, ottenuta con un piccolo esercito grazie all’intervento divino, rappresenta un archetipo biblico di guerra considerata giusta e sacra nella tradizione religiosa israelitica. La scelta di questo nome, secondo molti analisti, non è casuale: intende evocare l’idea di un conflitto legittimo e necessario, contro un nemico rappresentato non solo come minaccia politica, ma come incarnazione del male assoluto. A oggi, secondo fonti internazionali, oltre il 70% del territorio della Striscia di Gaza è sotto controllo militare israeliano o soggetto a ordini di evacuazione. Secondo le stime dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari - incaricato di monitorare  l’assistenza umanitaria in situazioni di crisi complesse; a Gaza coordina l'assistenza alle popolazioni colpite, monitora lo stato degli sfollati, valuta i danni e segnala impedimenti all’accesso degli aiuti umanitari - attualmente le vittime palestinesi superano i 52.000 morti, con centinaia di migliaia di feriti, orfani e sfollati interni. Il blocco totale imposto il 2 marzo ha reso impossibile l’accesso regolare a beni essenziali come acqua, cibo, medicinali e carburante. Ospedali e infrastrutture civili risultano gravemente danneggiati, e oltre due milioni di persone vivono in condizioni che l’ONU definisce prossime alla carestia. In tale contesto umanitario, le parole del ministro Smotrich assumono una portata allarmante. La dura proposta di trasferire i civili palestinesi verso Paesi terzi è stata fortemente respinta da Egitto e Giordania, che hanno dichiarato di non voler collaborare a questo piano che, secondo alcuni esperti legali e ONG internazionali, potrebbe essere interpretato come una forma di pulizia etnica se attuato su larga scala e con modalità coercitive. Sul piano giuridico, le dichiarazioni di Smotrich potrebbero costituire un elemento rilevante nel procedimento in corso presso la Corte Internazionale di Giustizia, che ha già emesso misure provvisorie ordinando a Israele di prevenire atti genocidari e di garantire l’accesso umanitario alla Striscia. Israele ha sempre respinto l’accusa di genocidio, ma, secondo alcuni esperti, dichiarazioni come quelle di Smotrich potrebbero essere interpretate come indicazioni di forme di deportazione, non consentite dai contenuti della Convenzione del 1948 (formalmente nota come Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio). Parallelamente, la crescente durezza della linea israeliana sta producendo una frattura diplomatica con diversi alleati storici. La Francia ha denunciato pubblicamente violazioni del diritto umanitario, il Regno Unito ha preso le distanze dall’espansione dell’operazione militare, mentre il Segretario Generale dell’ONU, António Guterres, ha espresso allarme per una strategia che rischia di causare ulteriori perdite civili e la distruzione totale della Striscia di Gaza. Negli Stati Uniti, storicamente il principale sostenitore politico e militare di Israele, si rilevano crepe nel consenso. Il presidente Donald Trump ha finora evitato critiche dirette all’azione militare israeliana, continuando ad attribuire la responsabilità della crisi a Hamas. Tuttavia, crescono le pressioni interne – provenienti da esponenti del Congresso, da settori della società civile, da studenti e accademici, e dalla diaspora araba e musulmana – affinché Washington adotti una posizione più chiara e orientata alla tutela dei diritti umani. Già nel 2024 erano emersi segnali concreti di divisioni politiche e sociali riguardo al sostegno incondizionato a Israele. Anche all’interno di Israele, alcuni ex alti ufficiali, accademici e gruppi per i diritti civili hanno espresso preoccupazione per la direzione dell’operazione militare, chiedendo una strategia alternativa che non comprometta l’immagine internazionale del Paese. Il rischio per Israele è quello di inseguire obiettivi che consentano una vittoria militare che secondo alcuni osservatori internazionali, potrebbe tuttavia tradursi in una sconfitta diplomatica e morale, con effetti duraturi sulla sua legittimità internazionale. L’assenza di un piano politico post-bellico credibile, inoltre, sta generando un vuoto di potere che potrebbe alimentare ulteriori cicli di radicalizzazione e violenza. La distruzione della società civile dei palestinesi non cancellerà la loro identità nazionale, né il loro desiderio di autodeterminazione: al contrario, potrebbe rafforzarlo, radicalizzandolo ulteriormente e minacciando l’intera stabilità regionale. Le parole di Smotrich, sebbene estreme, non possono essere archiviate come semplice retorica. Riflettono una tendenza concreta e ideologica di una parte del governo israeliano, orientata non verso una soluzione negoziale, ma verso una ridefinizione unilaterale – e secondo alcune interpretazioni, potenzialmente violenta – della realtà territoriale e demografica del conflitto. In questo scenario, la comunità internazionale, le istituzioni sovranazionali e le democrazie liberali hanno una responsabilità storica: intervenire prima che Gaza venga cancellata non solo fisicamente, ma anche come idea, come popolo e come memoria. Se Gaza venisse ‘cancellata’ c’è il rischio che si produca  non solo un deserto politico, ma una crisi etica di portata storica per la comunità mondiale. RR