Con l’arresto del
vicepresidente Riek Machar lo scorso 26 marzo il timore che il Sud Sudan possa
precipitare nuovamente in un conflitto armato è diventato concreto. Il Sudan
People’s Liberation Movement-In Opposition (SPLM-IO), guidato da Machar, ha
definito l’evento una rottura del fragile accordo di pace siglato nel 2018. La
comunità internazionale osserva con preoccupazione la più giovane nazione del
mondo sull’orlo di un nuovo collasso politico e istituzionale. Il Sud Sudan
conquistò l’indipendenza dal Sudan nel 2011, al termine di una lunga lotta
condotta dal Sudan People's Liberation Movement (SPLM). La pace durò poco. Già
nel 2013 il presidente Salva Kiir destituì il vicepresidente Machar accusandolo di aver organizzato un colpo di Stato. Ne scaturì una
guerra civile durata cinque anni con un bilancio di circa 400.000 morti e oltre
2,5 milioni di sfollati. Lo scontro, degenerato in una guerra etnica tra Dinka
(gruppo di Kiir) e Nuer (gruppo di Machar), trasformò le ostilità in una
tragedia nazionale. Oltre ai fattori politici ed etnici, alla base delle
tensioni vi erano e persistono motivazioni economiche profonde, legate al
controllo delle risorse naturali. Il petrolio rappresenta circa il 90% delle
entrate. I principali giacimenti si trovano nelle regioni di Unity e Alto Nilo.
La gestione delle risorse è motivo di gravi contrasti tra le élite politiche e
le comunità locali. A complicare il quadro vi è la dipendenza del Sud Sudan
dalle infrastrutture (gli oleodotti) del Sudan per l’esportazione del greggio.
Anche il controllo delle terre fertili e delle risorse idriche alimenta le
ostilità. Le inondazioni ricorrenti, dovute anche ai cambiamenti climatici e a
una cattiva gestione ambientale, hanno intensificato la competizione per
l’accesso alla terra coltivabile, soprattutto in regioni come Jonglei e Alto
Nilo. Nel 2018 la firma di un accordo di pace sembrava segnare una svolta.
Machar venne reintegrato come vicepresidente all’interno di un governo di unità
nazionale che avrebbe dovuto accompagnare il Paese verso la stabilità, ad
elezioni democratiche e alla predisposizione di una nuova costituzione.
Tuttavia, molti degli impegni previsti sono rimasti inattuati. Il processo di
strutturazione delle forze armate – che prevedeva la creazione di un unico esercito
di 83.000 unità – non è mai stato completato. Le milizie, spesso fedeli ai
singoli leader politici, continuano a operare autonomamente sul territorio.
Allo stesso modo non è mai stato istituito il tribunale speciale dell’Unione
Africana per giudicare i crimini commessi durante il conflitto. Le elezioni,
previste per il 2022, sono state rinviate ben quattro volte. Le tensioni si
sono nuovamente infiammate all’inizio di marzo, quando la White Army – una
milizia un tempo alleata di Machar – ha attaccato una base militare a Nasir,
nello stato dell’Alto Nilo. Pochi giorni dopo un elicottero delle Nazioni Unite
è stato colpito durante una missione di evacuazione: il bilancio è stato di
diversi morti. In questo contesto è avvenuto l’arresto di Machar e di diversi
suoi collaboratori, accusati di fomentare una ribellione armata. “La
prospettiva di pace e stabilità in Sud Sudan è ora seriamente compromessa,” ha
dichiarato Oyet Nathaniel Pierino, vice-leader del SPLM-IO. Il fragile processo
di riconciliazione rischia ora di crollare definitivamente. A rendere il
conflitto ancora più complesso è il coinvolgimento diretto e indiretto di
attori regionali. L’Uganda ha sempre sostenuto il governo di Salva Kiir, sia
per ragioni di sicurezza (temendo una destabilizzazione del confine), sia per
interessi economici legati al commercio e all’accesso al petrolio. Lo
schieramento di truppe ugandesi in Sud Sudan, ufficialmente per cooperazione
bilaterale, solleva dubbi sulla reale natura della presenza. L’Egitto osserva
con attenzione la situazione per la sua
influenza strategica sul bacino del Nilo, in particolare sulla
regolarità dei flussi idrici. Gli Emirati Arabi Uniti avrebbero interessi
economici e militari, legati a forniture indirette di armi in altri conflitti
regionali. La loro influenza crescente in Africa orientale è motivo di
preoccupazione per l’equilibrio geopolitico del continente. Il conflitto tra
Salva Kiir e Riek Machar affonda le radici in una rivalità personale e politica
che riflette, come già detto, anche divisioni etniche. Entrambi oggi sono due
figure anziane – rispettivamente 73 e 72 anni – che rappresentano visioni
opposte per il futuro del Paese. Kiir è al potere ininterrottamente dal 2011 e
ha consolidato la propria posizione anche attraverso il rinvio sistematico
delle elezioni. Machar, invece, ha visto frustrate le proprie ambizioni
presidenziali, denunciando da anni una deriva autoritaria del governo. La
mancanza di fiducia tra i due leader continua a minare qualsiasi tentativo di
stabilizzazione. Il rischio di una nuova guerra su larga scala è tutt’altro che
remoto. Nicholas Haysom, capo della missione ONU in Sud Sudan, ha lanciato un
avvertimento chiaro: il Paese è sull’orlo di un nuovo conflitto armato. La
presenza di milizie pronte alla mobilitazione rende lo scenario particolarmente
instabile, mentre la guerra in corso nel vicino Sudan potrebbe amplificare le tensioni
e innescare nuovi conflitti su base regionale. I tentativi diplomatici finora
non hanno prodotto risultati. Il presidente ugandese Yoweri Museveni si è
recato a Juba per incontrare Kiir, ma l’esito dei colloqui non è stato reso
noto. Una delegazione dell’Unione Africana ha cercato di avviare un dialogo
anche con Machar senza riuscirci. Gli appelli alla moderazione di Stati Uniti e
Regno Unito hanno avuto scarso impatto. Il Sud Sudan si trova oggi a un bivio
cruciale: scegliere la via della riconciliazione e del dialogo, oppure
ripiombare in un conflitto che potrebbe distruggere ciò che resta delle sue
fragili istituzioni. In un Paese segnato dalle ferite della guerra, la pace
resta un obiettivo incerto. Finché il controllo delle risorse naturali sarà
motivo di scontro e gli attori regionali agiranno in funzione dei propri
interessi, la speranza di una stabilità rischia di restare un miraggio. Il
futuro del Sud Sudan è incerto, sospeso tra il rischio di un nuovo collasso e
la possibilità di un percorso verso la stabilità. Tre sono gli scenari che si
delineano all’orizzonte. Nel migliore dei casi, una rinnovata spinta
diplomatica – interna e internazionale – potrebbe portare alla riapertura del
dialogo politico, alla piena attuazione dell’accordo di pace del 2018 e alla
celebrazione di elezioni credibili. Si aprirebbe la strada a riforme
istituzionali, alla creazione di un esercito unificato e a una gestione più
equa delle risorse. Lo scenario più realistico è quello di un prolungato stallo
politico: il potere resterebbe concentrato nelle mani del presidente Kiir, le
elezioni continuerebbero a slittare, la frammentazione militare e territoriale
persisterebbe. In questa situazione il Paese rischierebbe di rimanere
prigioniero di una pace apparente, instabile e incapace di produrre
miglioramenti tangibili per la popolazione. Nel peggiore dei casi l’attuale
crisi, in particolare la fragilità dell’accordo di pace, l’arresto di Machar,
la presenza di milizie armate, le tensioni etniche e l’ingerenza di attori esterni
potrebbero innescare una nuova guerra civile. In questo contesto la stabilità
del Sud Sudan dipenderà dalla volontà politica dei leader, dalla pressione
della comunità internazionale, dalla capacità della società civile di farsi
promotrice di pace. Ma, soprattutto, dipenderà da quanto seriamente il Paese
saprà affrontare le radici strutturali delle sue tensioni. RR
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
venerdì 18 aprile 2025
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