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PAESI DELLA LEGA ARABA

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La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

venerdì 18 aprile 2025

SUD SUDAN: IL FRAGILE EQUILIBRIO MINACCIATO DA UN NUOVO CONFLITTO





Con l’arresto del vicepresidente Riek Machar lo scorso 26 marzo il timore che il Sud Sudan possa precipitare nuovamente in un conflitto armato è diventato concreto. Il Sudan People’s Liberation Movement-In Opposition (SPLM-IO), guidato da Machar, ha definito l’evento una rottura del fragile accordo di pace siglato nel 2018. La comunità internazionale osserva con preoccupazione la più giovane nazione del mondo sull’orlo di un nuovo collasso politico e istituzionale. Il Sud Sudan conquistò l’indipendenza dal Sudan nel 2011, al termine di una lunga lotta condotta dal Sudan People's Liberation Movement (SPLM). La pace durò poco. Già nel 2013 il presidente Salva Kiir destituì il vicepresidente  Machar accusandolo di aver  organizzato un colpo di Stato. Ne scaturì una guerra civile durata cinque anni con un bilancio di circa 400.000 morti e oltre 2,5 milioni di sfollati. Lo scontro, degenerato in una guerra etnica tra Dinka (gruppo di Kiir) e Nuer (gruppo di Machar), trasformò le ostilità in una tragedia nazionale. Oltre ai fattori politici ed etnici, alla base delle tensioni vi erano e persistono motivazioni economiche profonde, legate al controllo delle risorse naturali. Il petrolio rappresenta circa il 90% delle entrate. I principali giacimenti si trovano nelle regioni di Unity e Alto Nilo. La gestione delle risorse è motivo di gravi contrasti tra le élite politiche e le comunità locali. A complicare il quadro vi è la dipendenza del Sud Sudan dalle infrastrutture (gli oleodotti) del Sudan per l’esportazione del greggio. Anche il controllo delle terre fertili e delle risorse idriche alimenta le ostilità. Le inondazioni ricorrenti, dovute anche ai cambiamenti climatici e a una cattiva gestione ambientale, hanno intensificato la competizione per l’accesso alla terra coltivabile, soprattutto in regioni come Jonglei e Alto Nilo. Nel 2018 la firma di un accordo di pace sembrava segnare una svolta. Machar venne reintegrato come vicepresidente all’interno di un governo di unità nazionale che avrebbe dovuto accompagnare il Paese verso la stabilità, ad elezioni democratiche e alla predisposizione di una nuova costituzione. Tuttavia, molti degli impegni previsti sono rimasti inattuati. Il processo di strutturazione delle forze armate – che prevedeva la creazione di un unico esercito di 83.000 unità – non è mai stato completato. Le milizie, spesso fedeli ai singoli leader politici, continuano a operare autonomamente sul territorio. Allo stesso modo non è mai stato istituito il tribunale speciale dell’Unione Africana per giudicare i crimini commessi durante il conflitto. Le elezioni, previste per il 2022, sono state rinviate ben quattro volte. Le tensioni si sono nuovamente infiammate all’inizio di marzo, quando la White Army – una milizia un tempo alleata di Machar – ha attaccato una base militare a Nasir, nello stato dell’Alto Nilo. Pochi giorni dopo un elicottero delle Nazioni Unite è stato colpito durante una missione di evacuazione: il bilancio è stato di diversi morti. In questo contesto è avvenuto l’arresto di Machar e di diversi suoi collaboratori, accusati di fomentare una ribellione armata. “La prospettiva di pace e stabilità in Sud Sudan è ora seriamente compromessa,” ha dichiarato Oyet Nathaniel Pierino, vice-leader del SPLM-IO. Il fragile processo di riconciliazione rischia ora di crollare definitivamente. A rendere il conflitto ancora più complesso è il coinvolgimento diretto e indiretto di attori regionali. L’Uganda ha sempre sostenuto il governo di Salva Kiir, sia per ragioni di sicurezza (temendo una destabilizzazione del confine), sia per interessi economici legati al commercio e all’accesso al petrolio. Lo schieramento di truppe ugandesi in Sud Sudan, ufficialmente per cooperazione bilaterale, solleva dubbi sulla reale natura della presenza. L’Egitto osserva con attenzione la situazione per la sua  influenza strategica sul bacino del Nilo, in particolare sulla regolarità dei flussi idrici. Gli Emirati Arabi Uniti avrebbero interessi economici e militari, legati a forniture indirette di armi in altri conflitti regionali. La loro influenza crescente in Africa orientale è motivo di preoccupazione per l’equilibrio geopolitico del continente. Il conflitto tra Salva Kiir e Riek Machar affonda le radici in una rivalità personale e politica che riflette, come già detto, anche divisioni etniche. Entrambi oggi sono due figure anziane – rispettivamente 73 e 72 anni – che rappresentano visioni opposte per il futuro del Paese. Kiir è al potere ininterrottamente dal 2011 e ha consolidato la propria posizione anche attraverso il rinvio sistematico delle elezioni. Machar, invece, ha visto frustrate le proprie ambizioni presidenziali, denunciando da anni una deriva autoritaria del governo. La mancanza di fiducia tra i due leader continua a minare qualsiasi tentativo di stabilizzazione. Il rischio di una nuova guerra su larga scala è tutt’altro che remoto. Nicholas Haysom, capo della missione ONU in Sud Sudan, ha lanciato un avvertimento chiaro: il Paese è sull’orlo di un nuovo conflitto armato. La presenza di milizie pronte alla mobilitazione rende lo scenario particolarmente instabile, mentre la guerra in corso nel vicino Sudan potrebbe amplificare le tensioni e innescare nuovi conflitti su base regionale. I tentativi diplomatici finora non hanno prodotto risultati. Il presidente ugandese Yoweri Museveni si è recato a Juba per incontrare Kiir, ma l’esito dei colloqui non è stato reso noto. Una delegazione dell’Unione Africana ha cercato di avviare un dialogo anche con Machar senza riuscirci. Gli appelli alla moderazione di Stati Uniti e Regno Unito hanno avuto scarso impatto. Il Sud Sudan si trova oggi a un bivio cruciale: scegliere la via della riconciliazione e del dialogo, oppure ripiombare in un conflitto che potrebbe distruggere ciò che resta delle sue fragili istituzioni. In un Paese segnato dalle ferite della guerra, la pace resta un obiettivo incerto. Finché il controllo delle risorse naturali sarà motivo di scontro e gli attori regionali agiranno in funzione dei propri interessi, la speranza di una stabilità rischia di restare un miraggio. Il futuro del Sud Sudan è incerto, sospeso tra il rischio di un nuovo collasso e la possibilità di un percorso verso la stabilità. Tre sono gli scenari che si delineano all’orizzonte. Nel migliore dei casi, una rinnovata spinta diplomatica – interna e internazionale – potrebbe portare alla riapertura del dialogo politico, alla piena attuazione dell’accordo di pace del 2018 e alla celebrazione di elezioni credibili. Si aprirebbe la strada a riforme istituzionali, alla creazione di un esercito unificato e a una gestione più equa delle risorse. Lo scenario più realistico è quello di un prolungato stallo politico: il potere resterebbe concentrato nelle mani del presidente Kiir, le elezioni continuerebbero a slittare, la frammentazione militare e territoriale persisterebbe. In questa situazione il Paese rischierebbe di rimanere prigioniero di una pace apparente, instabile e incapace di produrre miglioramenti tangibili per la popolazione. Nel peggiore dei casi l’attuale crisi, in particolare la fragilità dell’accordo di pace, l’arresto di Machar, la presenza di milizie armate, le tensioni etniche e l’ingerenza di attori esterni potrebbero innescare una nuova guerra civile. In questo contesto la stabilità del Sud Sudan dipenderà dalla volontà politica dei leader, dalla pressione della comunità internazionale, dalla capacità della società civile di farsi promotrice di pace. Ma, soprattutto, dipenderà da quanto seriamente il Paese saprà affrontare le radici strutturali delle sue tensioni. RR