Si vis pacem, para
bellum. Con questo motto che evoca antiche logiche imperiali l’Unione Europea
ha inaugurato il piano Readiness 2030, un progetto di rafforzamento militare da
800 miliardi di euro. L’iniziativa si fonda sull’idea che il mantenimento della
pace derivi dalla superiorità bellica, in un aggiornato contesto nel quale la
deterrenza sostituisce il dialogo. Questa visione, che identifica la sicurezza
con l’accumulo di armi, è inadatta ad affrontare le complessità del presente e
rischia di compromettere le radici del
progetto europeo. La pace autentica non nasce dalla minaccia, ma dalla capacità
di comprendere le cause dei conflitti e di costruire spazi comuni di confronto.
L’adozione di una politica fondata sul riarmo inverte la rotta rispetto
all’identità che l’Europa aveva scelto di darsi dopo le tragedie del Novecento:
non più blocchi contrapposti, ma cooperazione, mediazione, costruzione
condivisa di un futuro basato sui diritti e sulla giustizia. Readiness 2030 non
è solo una questione strategica: è un simbolo della trasformazione dell’Europa
da comunità di popoli a polo geopolitico armato. Questa metamorfosi si sta
consumando mentre i cittadini europei affrontano sfide economiche, sanitarie e
sociali che richiederebbero un impiego diverso delle risorse pubbliche. In
un’epoca segnata da inflazione, povertà crescente, crisi climatica ed emergenze
educative, la scelta di investire nell’industria bellica appare non solo
anacronistica, ma profondamente ingiusta. Il rischio è duplice. Da un lato, si
alimenta una nuova corsa agli armamenti che potrebbe aumentare la possibilità
di escalation e destabilizzazione. Dall’altro, si crea una frattura crescente
tra le élite politiche e la popolazione, la cui quotidianità è segnata da
problemi reali ai quali non si dà risposta. Invece di rafforzare lo stato
sociale, si preferisce irrigidire i confini della difesa, mentre l’insicurezza
percepita viene usata per giustificare ogni forma di spesa militare. A questo
quadro si aggiunge una progressiva perdita di autonomia strategica. L’Europa,
sempre più allineata agli interessi atlantici, rinuncia alla possibilità di
sviluppare una propria via alla pace, indipendente dai dettami di potenze
extraeuropee. L’adozione acritica di una logica da guerra fredda rischia di
soffocare le energie creative, scientifiche e culturali del continente,
sostituendo la diplomazia con la minaccia, e la cooperazione con la logica del
nemico. Ma c’è un ulteriore nodo, spesso sottovalutato, che riguarda la
sostenibilità industriale e la competitività economica del riarmo. L’industria
europea della difesa è frammentata, con duplicazioni di sistemi d’arma e scarsa
interoperabilità tra i diversi eserciti. Manca un vero mercato comune della
difesa, mentre i colossi globali – in particolare statunitensi e cinesi –
dominano per scala, innovazione e capacità produttiva. In questo ambito, l’idea
di costruire rapidamente un complesso militare europeo competitivo appare poco
realistica. Le risorse rischiano di disperdersi in inefficienze, alimentando un
sistema industriale incapace di reggere il confronto internazionale. Aumentare
la spesa non equivale automaticamente a diventare più sicuri né più forti:
senza una strategia industriale coerente, il riarmo potrebbe produrre più
debito che deterrenza, più sprechi che difesa. Prepararsi ad un conflitto
bellico non implica necessariamente evitarlo; spesso significa legittimarlo,
normalizzarlo, renderlo più probabile. Investire in armamenti anziché in
coesione significa trasmettere ai cittadini un messaggio di sfiducia: non si
crede più nella forza della parola, ma nella forza delle armi. E così si
affievolisce il senso di appartenenza a un’Europa dei popoli, alimentando
nazionalismi, divisioni, sospetti. Il bivio è storico. Da un lato, la
tentazione di rispondere alle incertezze globali con la logica della forza.
Dall’altro, la possibilità di affrontare le sfide con gli strumenti della
cultura, della scienza, della giustizia sociale. La militarizzazione non è una
necessità ineluttabile, ma una scelta politica. E ogni opzione porta con sé una
visione del mondo. Il futuro dell’Europa dipenderà da ciò che oggi decidiamo di
essere: un continente che alza muri o che costruisce ponti. Una potenza armata
o una potenza di pace. Un progetto guidato dalla paura o una comunità che
sceglie la speranza. Le decisioni che verranno prese nei prossimi anni non
definiranno solo la nostra sicurezza: plasmeranno la civiltà che vogliamo lasciare
in eredità. Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
venerdì 28 marzo 2025
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