RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

sabato 3 giugno 2023

LA TURCHIA DI IERI PER COMPRENDERE LA TURCHIA DI OGGI (8.8.2021)

 

La Turchia ha un’importanza centrale nei precari equilibri della regione mediorientale. Il suo ruolo non sempre chiaro è il corollario di un quesito di fondo: la Turchia conserva ancora qualche retaggio del suo passato laico o la scelta islamica, seguita all’ascesa di Erdogan, ha innescato un processo di islamizzazione irreversibile?  È un’appendice dell’Occidente in Asia o è la punta avanzata dell’Oriente in Europa?  È un pezzo di Medio Oriente in Occidente o un pezzo di Occidente in Medio Oriente? Probabilmente tutte queste opzioni hanno un fondo di verità in quanto questo Paese è il diretto erede dell’Impero Ottomano, che realizzò una sintesi fra la realtà balcanica europea e la civiltà anatolica.  Sul Bosforo c’è un ponte lungo più di un chilometro, che unisce non solo due parti distanti della città, ma due continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è il simbolo di quella doppia anima che pone spesso la Turchia al centro di delicate questioni geopolitiche, che si ripercuotono sulle sue vicende nazionali.   La natura ambigua del Paese, oltre che attraverso la sua collocazione geografica, può essere compresa ripercorrendo la sua storia nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato e rivolte, si sono alternate istanze di radicale laicizzazione, di cui i militari sono stati i maggiori garanti, a un periodico riemergere di un’anima conservatrice fondamentalista che promuoveva processi di islamizzazione.  Nel Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste tappe fondamentali.  Nel 1923 Mustafà Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito Popolare Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto IV fondò la Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero Ottomano e ne divenne il primo presidente.  Kemal Ataturk è considerato il padre della Turchia moderna: avviò una capillare modernizzazione del Paese coniugando uno spiccato nazionalismo con una radicale laicizzazione.  Venne abolito il califfato, vennero chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali religiosi, venne esteso il diritto di voto alle donne, furono introdotti codici e una legislazione di ispirazione europea, venne affiancato l’uso dei caratteri occidentali a quello dell’alfabeto arabo.  Ataturk morì nel 1938, ma il processo di avvicinamento culturale e politico all’Occidente continuò con i governi che seguirono.  Nel 1945 la Turchia divenne membro dell’ONU. Nel 1952 entrò a far parte della NATO e durante la guerra fredda fu un fedele alleato degli Stati Uniti. Tuttavia, i governi laici che si alternarono dovettero più volte fronteggiare i movimenti islamisti che rivendicavano un ruolo maggiore nelle vicende del Paese.   Già allora affioravano quelle contraddizioni che sono particolarmente evidenti nella realtà turca attuale.  Nelle situazioni di maggiore conflittualità a tutela delle istanze laiche intervenne l’esercito. In particolare, per porre fine a un periodo di tumulti, nel 1980 il generale Evren prese il potere con un colpo di Stato, probabilmente con la complicità del governo USA che voleva contrastare lo sviluppo dei movimenti popolari di sinistra.  La dittatura militare durò due anni, nel corso dei quali venne modificata la Costituzione e nella sostanza ci si allontanò dallo spirito riformista kemalista.  Il generale Kenan Evren avviò un processo di «normalizzazione» della società turca, nella quale si realizzò una sintesi fra un nazionalismo acceso e il conservatorismo dei fondamentalisti nel quadro di un sistema ispirato a princìpi neoliberisti.  Ristabilito l’ordine e ribadito il carattere laico della Turchia, i militari, come già era avvenuto nel 1960 e nel 1970, rinunciarono al potere politico e nel giro di due anni riconsegnarono il Paese nelle mani dei civili.  Furono convocate libere elezioni democratiche.  Evren lasciò l’esercito e venne eletto dal Parlamento Presidente della Repubblica, rimanendo in carica fino al 1989.  Nel 2002 si impadronì del potere l’AKP, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, filomusulmano e conservatore, che si era potenziato nel quadro della tradizione dell’Islàm politico virando verso un modello di democrazia conservatrice.  Il suo leader e fondatore Recep Tayyip Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo periodo molto controverso che dura ancora oggi.   Come e a tutti noto, lo scopo della NATO fu la creazione, al termine della Seconda Guerra Mondiale, di un’alleanza militare a carattere difensivo, che venne istituita in relazione alle insorgenti tensioni fra il mondo occidentale e il fronte costituito dall’Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti.  Con la caduta del muro di Berlino e la conseguente disgregazione del blocco sovietico è venuto meno l’antagonista per il quale era stata costituita l’Alleanza Atlantica.  Fino a quando la realtà politica mondiale si era retta sull’equilibrio USA-URSS, era in atto una sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare, caratterizzato da una situazione di permanente contrapposizione e di ostilità reciproche.  La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo equilibrio, creando di fatto un’egemonia degli USA rimasti l’unica reale superpotenza. L’attuale contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione Sovietica, dal momento che l’Islàm non è soltanto una religione, ma rappresenta anche una realtà geopolitica.  L’esistenza della NATO, che è nata nel contesto della contrapposizione USA-URSS, potrebbe trovare una rinnovata giustificazione della sua esistenza nell’àmbito del confronto fra Europa e radicalismo di matrice islamista.  In relazione a questo possibile nuovo ruolo della NATO, la presenza dello Stato turco all’interno del Patto Atlantico potrebbe assumere un peculiare diverso significato strategico. Mentre al momento dell’adesione al Patto, la posizione della Turchia era di provata vicinanza politica agli Stati occidentali, l’attuale processo interno di neo-islamizzazione rende incerta la sua affidabilità.  Gli USA, per frenare la «proiezione» mediorientale di Ankara, hanno sempre ritenuto di vitale importanza mantenere salde le relazioni fra il Paese turco e l’Occidente; in proposito la NATO è lo strumento più adeguato a conseguire questo fine.  Dopo le tensioni che seguirono l’abbattimento di un velivolo sovietico avvenuto nel novembre 2015 ad opera di due F16 Turchi, la NATO, dopo essersi subito dichiarata dalla parte della Turchia, si è frettolosamente impegnata ad aumentare la capacità di difesa dello spazio aereo turco da potenziali minacce russe.  In Turchia, già prima del fallito golpe del luglio del 2016, si stava affermando in maniera inquietante una linea autoritaria che aveva determinato un preoccupante arretramento nella tutela dei diritti di libertà.  Con il pretesto di proteggere la sicurezza nazionale e negando di interferire con la libertà di stampa, furono sottoposti a misure restrittive della libertà personale numerosi giornalisti.  Questi eventi rendono fondato chiedersi se la Turchia si identifichi con la politica di Erdogan, che attraverso un processo a lungo termine sta trasformando l’identità geopolitica del Paese, o sia rimasta integra la sua l’aspirazione laica e filoccidentale di origine kemalista.   La Turchia di Erdogan sembra avere l’ambizione di tornare a essere una grande potenza regionale, un’aggiornata versione del neo-califfato, cercando di acquisire, in concorrenza con le monarchie saudite, un’incontrastata egemonia nell’area mediorientale e nell’àmbito dell’Islàm sunnita.  La pregressa disgregazione dell’Unione Sovietica consentirebbe inoltre il ripristino degli antichi collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale: conseguentemente la Turchia potrebbe coltivare l’ambizione di diventare punto ideale di riferimento geopolitico per uno spazio che va dalla Mongolia al Corno d’Africa.   Nel mese di marzo del 2016 è stato concluso un accordo fra la Turchia e l’Unione Europea al fine di fronteggiare la pressione migratoria diretta in Europa, che si era concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della rotta balcanica.  L’accordo iniziale prevedeva che i migranti irregolari in viaggio dalla Turchia verso la Grecia fossero accolti dalla Turchia.  Per ogni profugo in possesso dei requisiti per richiedere asilo ospitato in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d’asilo, sarebbe stato destinato dalla Turchia all’Unione Europea fino a un massimo di 72.000 individui, con priorità per quei migranti che non avessero tentato di entrare nel territorio in modo irregolare.  I profughi destinati ai Paesi dell’Unione Europea successivamente sarebbero stati ridistribuiti in base a una ripartizione per quote.  In pratica l’Europa di fatto ‘delegava’ alla Turchia la gestione del problema ‘immigrazione’, compensandola con un finanziamento consistente ed altre agevolazioni.  Fin dall’inizio sono stati sollevati dubbi sulla tenuta dell’accordo: la scarsa esperienza del governo turco in materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimentava qualche dubbio sui risultati a lungo termine dell’intesa.   L’accordo avrebbe dovuto avere quindi l’effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia, che avrebbe rimandato gli «irregolari» in Turchia in attesa dell’esito della loro richiesta di asilo.  Per l’Italia si sarebbero potute aprire prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco avrebbero potuto spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta mediterranea.  L’accordo presentava il limite di essere definito in termini astratti, senza prevedere vincoli pratici di attuazione e garanzie di natura umanitaria.  Nel frattempo, l’istanza turca di rilancio dei negoziati con Bruxelles per il suo ingresso «in Europa» già allora non sembrava avere particolari possibilità di successo, in quanto la svolta repressiva del dissenso interno e la scarsa tutela dei diritti di libertà dei cittadini non soddisfaceva i criteri per l’adesione.  L’accordo in materia di immigrazione, oltre a perplessità operative, ha suscitato fin dall’inizio molte critiche da un punto di vista etico: l’Unione europea, infatti, privilegiando la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di un’ingente somma economica, si sgravava della gestione di tutte le problematiche - comprese quelle umanitarie - correlate alla questione dei profughi.  Con la cospicua somma promessa alla Turchia l’Europa avrebbe potuto affrontare in proprio l’emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospettava l’affidamento della questione al governo di Ankara.   La sera del 15 luglio 2016 una parte dell’esercito turco tentò di impadronirsi del potere e di destituire il presidente Erdogan. Il colpo di Stato fallì dopo qualche ora di scontri e di incertezze.  Il presidente turco nell’immediatezza cercò di fuggire dal Paese con un aereo privato, e, mediante messaggi inviati via smarthphone all’emittente televisiva CNN Turkey, che li diramò, invitò la popolazione a scendere in piazza per manifestare pubblicamente il sostegno al governo.  Avendo acquisito la certezza del fallimento dell’insurrezione, Erdogan tornò a Istanbul.  Gli scontri proseguirono fino all’alba, soprattutto ad Ankara, nelle adiacenze del palazzo presidenziale.  Alla fine, si registrò un bilancio particolarmente pesante: fra militari, poliziotti e civili più di 260 persone hanno perso la vita, mentre almeno 1.500 militari sono stati arrestati.  Dopo aver ripreso il controllo del Paese, Erdogan ha immediatamente dato inizio a una massiccia e capillare epurazione degli ufficiali golpisti.  Nei giorni successivi la destituzione dalle funzioni è stata estesa ad altri militari, a poliziotti, a giornalisti, a docenti e insegnanti, e a chiunque altro avesse manifestato in passato critiche o anche solo una tiepida opposizione nei confronti del regime.  L’iniziativa golpista ha avuto come reazione manifestazioni popolari a sostegno del leader turco, che ne hanno ulteriormente legittimato il suo potere.  Erdogan attribuì a Fetullah Gulen la responsabilità di aver organizzato l’insurrezione dalla sua dimora negli Stati Uniti, nella quale si era autoesiliato dopo alcuni attriti con Erdogan. L’imam turco Fetullah Gulen, che ha negato fermamente ogni addebito, è l’ideologo e il leader del movimento politico di ispirazione islamista ‘Hizmet’.  Nei mesi precedenti il tentato golpe era cresciuta l’opposizione interna: Erdogan per mantenere il controllo dello Stato era ricorso all’adozione di misure che, motivate da esigenze di sicurezza, avevano inciso negativamente in maniera consistente sulla vita democratica.  È legittimo chiedersi se questi moti insurrezionali furono un reale tentato ‘golpe’ o il pretesto per una svolta autoritaria.   La Turchia resta destinataria di un duplice attacco, sia da parte del PKK, sia da parte del radicalismo jihadista nonostante le sue spregiudicate relazioni con l’ISIS.  Da un punto di vista internazionale il Paese è in una situazione di isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo, essendo espressione di un islamismo dai tratti ambigui e palesemente animato solo da una volontà egemonica, quella di prevalere sugli altri Stati musulmani.  Il regime turco sta cercando di uscire da questa condizione di isolamento attraverso alcuni tentativi di normalizzazione dei rapporti bilaterali con alcuni Stati; sembra anche avviato un timido e prudente processo di pacificazione con Israele.  Sono incerti e fluttuanti i contatti con l’Unione Europea, motivati solo dalla convenienza reciproca, come è provato dall’accordo sui migranti.  L’ipotesi di una possibile adesione al consesso europeo sembra definitivamente tramontata, in quanto la nazione turca non soddisfa gli standard richiesti per l’ammissione.  Il PKK, che da più di tre decenni combatte con ogni mezzo per l’autonomia curda, anche in assenza di specifiche rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile di qualsiasi fatto criminoso eversivo.  La Turchia al suo interno è profondamente divisa: c’è una borghesia urbana – costituita dalle classi benestanti e dagli studenti impegnati politicamente – che, seppur non omogenea, è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di opinione.  Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale delle due anime a lungo termine prevarrà sull’altra.    Roberto Rapaccini