La
Turchia ha un’importanza centrale nei precari equilibri della regione mediorientale.
Il suo ruolo non sempre chiaro è il corollario di un quesito di fondo: la
Turchia conserva ancora qualche retaggio del suo passato laico o la scelta
islamica, seguita all’ascesa di Erdogan, ha innescato un processo di
islamizzazione irreversibile? È un’appendice dell’Occidente in Asia o è
la punta avanzata dell’Oriente in Europa? È un pezzo di Medio Oriente in
Occidente o un pezzo di Occidente in Medio Oriente? Probabilmente tutte queste
opzioni hanno un fondo di verità in quanto questo Paese è il diretto erede
dell’Impero Ottomano, che realizzò una sintesi fra la realtà balcanica europea
e la civiltà anatolica. Sul Bosforo c’è un ponte lungo più di un
chilometro, che unisce non solo due parti distanti della città, ma due
continenti, Asia ed Europa. Questo ponte è il simbolo di quella doppia anima
che pone spesso la Turchia al centro di delicate questioni geopolitiche, che si
ripercuotono sulle sue vicende nazionali. La natura ambigua del
Paese, oltre che attraverso la sua collocazione geografica, può essere compresa
ripercorrendo la sua storia nel XX secolo, nel quale, attraverso colpi di Stato
e rivolte, si sono alternate istanze di radicale laicizzazione, di cui i
militari sono stati i maggiori garanti, a un periodico riemergere di un’anima
conservatrice fondamentalista che promuoveva processi di islamizzazione.
Nel Novecento la storia turca si è articolata attraverso queste tappe
fondamentali. Nel 1923 Mustafà Kemal Ataturk, divenuto leader del Partito
Popolare Repubblicano, dopo aver deposto il sultano Maometto IV fondò la
Repubblica turca sulle ceneri dell’Impero Ottomano e ne divenne il primo
presidente. Kemal Ataturk è considerato il padre della Turchia moderna:
avviò una capillare modernizzazione del Paese coniugando uno spiccato nazionalismo
con una radicale laicizzazione. Venne abolito il califfato, vennero
chiuse le scuole coraniche e soppressi i tribunali religiosi, venne esteso il
diritto di voto alle donne, furono introdotti codici e una legislazione di
ispirazione europea, venne affiancato l’uso dei caratteri occidentali a quello
dell’alfabeto arabo. Ataturk morì nel 1938, ma il processo di
avvicinamento culturale e politico all’Occidente continuò con i governi che
seguirono. Nel 1945 la Turchia divenne membro dell’ONU. Nel 1952 entrò a
far parte della NATO e durante la guerra fredda fu un fedele alleato degli
Stati Uniti. Tuttavia, i governi laici che si alternarono dovettero più volte
fronteggiare i movimenti islamisti che rivendicavano un ruolo maggiore nelle
vicende del Paese. Già allora affioravano quelle contraddizioni che
sono particolarmente evidenti nella realtà turca attuale. Nelle
situazioni di maggiore conflittualità a tutela delle istanze laiche intervenne
l’esercito. In particolare, per porre fine a un periodo di tumulti, nel 1980 il
generale Evren prese il potere con un colpo di Stato, probabilmente con la
complicità del governo USA che voleva contrastare lo sviluppo dei movimenti
popolari di sinistra. La dittatura militare durò due anni, nel corso dei
quali venne modificata la Costituzione e nella sostanza ci si allontanò dallo
spirito riformista kemalista. Il generale Kenan Evren avviò un processo
di «normalizzazione» della società turca, nella quale si realizzò una sintesi
fra un nazionalismo acceso e il conservatorismo dei fondamentalisti nel quadro
di un sistema ispirato a princìpi neoliberisti. Ristabilito l’ordine e
ribadito il carattere laico della Turchia, i militari, come già era avvenuto
nel 1960 e nel 1970, rinunciarono al potere politico e nel giro di due anni
riconsegnarono il Paese nelle mani dei civili. Furono convocate libere
elezioni democratiche. Evren lasciò l’esercito e venne eletto dal
Parlamento Presidente della Repubblica, rimanendo in carica fino al 1989.
Nel 2002 si impadronì del potere l’AKP, il Partito per la Giustizia e lo
Sviluppo, filomusulmano e conservatore, che si era potenziato nel quadro della
tradizione dell’Islàm politico virando verso un modello di democrazia
conservatrice. Il suo leader e fondatore Recep Tayyip
Erdogan divenne primo ministro: ebbe inizio un lungo periodo molto controverso
che dura ancora oggi. Come e a tutti noto, lo scopo della NATO fu
la creazione, al termine della Seconda Guerra Mondiale, di un’alleanza militare
a carattere difensivo, che venne istituita in relazione alle insorgenti
tensioni fra il mondo occidentale e il fronte costituito dall’Unione Sovietica
e i suoi Stati satelliti. Con la caduta del muro di Berlino e la
conseguente disgregazione del blocco sovietico è venuto meno l’antagonista per
il quale era stata costituita l’Alleanza Atlantica. Fino a quando la
realtà politica mondiale si era retta sull’equilibrio USA-URSS, era in atto una
sorta di bilanciamento tra le due potenze fondato su un ordine bipolare,
caratterizzato da una situazione di permanente contrapposizione e di ostilità
reciproche. La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha rotto questo
equilibrio, creando di fatto un’egemonia degli USA rimasti l’unica reale
superpotenza. L’attuale contrapposizione fra il mondo islamico fondamentalista
e l’Occidente di fatto ha sostituito il vuoto creato dal crollo dell’Unione
Sovietica, dal momento che l’Islàm non è soltanto una religione, ma rappresenta
anche una realtà geopolitica. L’esistenza della NATO, che è nata nel
contesto della contrapposizione USA-URSS, potrebbe trovare una rinnovata
giustificazione della sua esistenza nell’àmbito del confronto fra Europa e
radicalismo di matrice islamista. In relazione a questo possibile nuovo
ruolo della NATO, la presenza dello Stato turco all’interno del Patto Atlantico
potrebbe assumere un peculiare diverso significato strategico. Mentre al
momento dell’adesione al Patto, la posizione della Turchia era di provata
vicinanza politica agli Stati occidentali, l’attuale processo interno di neo-islamizzazione
rende incerta la sua affidabilità. Gli USA, per frenare la «proiezione»
mediorientale di Ankara, hanno sempre ritenuto di vitale importanza mantenere
salde le relazioni fra il Paese turco e l’Occidente; in proposito la NATO è lo
strumento più adeguato a conseguire questo fine. Dopo le tensioni che
seguirono l’abbattimento di un velivolo sovietico avvenuto nel novembre 2015 ad
opera di due F16 Turchi, la NATO, dopo essersi subito dichiarata dalla parte
della Turchia, si è frettolosamente impegnata ad aumentare la capacità di
difesa dello spazio aereo turco da potenziali minacce russe. In Turchia,
già prima del fallito golpe del luglio del 2016, si stava affermando in maniera
inquietante una linea autoritaria che aveva determinato un preoccupante arretramento
nella tutela dei diritti di libertà. Con il pretesto di proteggere la
sicurezza nazionale e negando di interferire con la libertà di stampa, furono
sottoposti a misure restrittive della libertà personale numerosi giornalisti.
Questi eventi rendono fondato chiedersi se la Turchia si identifichi con
la politica di Erdogan, che attraverso un processo a lungo termine sta
trasformando l’identità geopolitica del Paese, o sia rimasta integra la sua
l’aspirazione laica e filoccidentale di origine kemalista. La
Turchia di Erdogan sembra avere l’ambizione di tornare a essere una grande
potenza regionale, un’aggiornata versione del neo-califfato, cercando di
acquisire, in concorrenza con le monarchie saudite, un’incontrastata egemonia
nell’area mediorientale e nell’àmbito dell’Islàm sunnita. La pregressa
disgregazione dell’Unione Sovietica consentirebbe inoltre il ripristino degli
antichi collegamenti con i popoli di lingua turca dell’Asia centrale:
conseguentemente la Turchia potrebbe coltivare l’ambizione di diventare punto
ideale di riferimento geopolitico per uno spazio che va dalla Mongolia al Corno
d’Africa. Nel mese di marzo del 2016 è stato concluso un accordo
fra la Turchia e l’Unione Europea al fine di fronteggiare la pressione migratoria
diretta in Europa, che si era concentrata sulla Grecia dopo la chiusura della
rotta balcanica. L’accordo iniziale prevedeva che i migranti irregolari
in viaggio dalla Turchia verso la Grecia fossero accolti dalla Turchia.
Per ogni profugo in possesso dei requisiti per richiedere asilo ospitato
in Turchia, un altro, sempre in possesso dei requisiti per il diritto d’asilo,
sarebbe stato destinato dalla Turchia all’Unione Europea fino a un massimo di
72.000 individui, con priorità per quei migranti che non avessero tentato di
entrare nel territorio in modo irregolare. I profughi destinati ai Paesi
dell’Unione Europea successivamente sarebbero stati ridistribuiti in base a una
ripartizione per quote. In pratica l’Europa di fatto ‘delegava’ alla Turchia
la gestione del problema ‘immigrazione’, compensandola con un finanziamento
consistente ed altre agevolazioni. Fin dall’inizio sono stati sollevati
dubbi sulla tenuta dell’accordo: la scarsa esperienza del governo turco in
materia di politiche di asilo e di flussi migratori alimentava qualche dubbio
sui risultati a lungo termine dell’intesa. L’accordo avrebbe dovuto
avere quindi l’effetto di alleggerire la pressione dei profughi sulla Grecia,
che avrebbe rimandato gli «irregolari» in Turchia in attesa dell’esito della
loro richiesta di asilo. Per l’Italia si sarebbero potute aprire
prospettive non rassicuranti in quanto le difficoltà create dal filtro turco
avrebbero potuto spingere parte dei migranti a privilegiare la rotta
mediterranea. L’accordo presentava il limite di essere definito in
termini astratti, senza prevedere vincoli pratici di attuazione e garanzie di
natura umanitaria. Nel frattempo, l’istanza turca di rilancio dei
negoziati con Bruxelles per il suo ingresso «in Europa» già allora non sembrava
avere particolari possibilità di successo, in quanto la svolta repressiva del
dissenso interno e la scarsa tutela dei diritti di libertà dei cittadini non
soddisfaceva i criteri per l’adesione. L’accordo in materia di
immigrazione, oltre a perplessità operative, ha suscitato fin dall’inizio molte
critiche da un punto di vista etico: l’Unione europea, infatti, privilegiando
la tutela delle proprie frontiere dietro il pagamento di un’ingente somma
economica, si sgravava della gestione di tutte le problematiche - comprese
quelle umanitarie - correlate alla questione dei profughi. Con la
cospicua somma promessa alla Turchia l’Europa avrebbe potuto affrontare in
proprio l’emergenza con esiti meno incerti di quelli che prospettava
l’affidamento della questione al governo di Ankara. La sera del 15
luglio 2016 una parte dell’esercito turco tentò di impadronirsi del potere e di
destituire il presidente Erdogan. Il colpo di Stato fallì dopo qualche ora di
scontri e di incertezze. Il presidente turco nell’immediatezza cercò di
fuggire dal Paese con un aereo privato, e, mediante messaggi inviati via
smarthphone all’emittente televisiva CNN Turkey, che li
diramò, invitò la popolazione a scendere in piazza per manifestare
pubblicamente il sostegno al governo. Avendo acquisito la certezza del
fallimento dell’insurrezione, Erdogan tornò a Istanbul. Gli scontri
proseguirono fino all’alba, soprattutto ad Ankara, nelle adiacenze del palazzo
presidenziale. Alla fine, si registrò un bilancio particolarmente
pesante: fra militari, poliziotti e civili più di 260 persone hanno perso la
vita, mentre almeno 1.500 militari sono stati arrestati. Dopo aver
ripreso il controllo del Paese, Erdogan ha immediatamente dato inizio a una
massiccia e capillare epurazione degli ufficiali golpisti. Nei giorni
successivi la destituzione dalle funzioni è stata estesa ad altri militari, a
poliziotti, a giornalisti, a docenti e insegnanti, e a chiunque altro avesse
manifestato in passato critiche o anche solo una tiepida opposizione nei confronti
del regime. L’iniziativa golpista ha avuto come reazione manifestazioni
popolari a sostegno del leader turco, che ne hanno ulteriormente legittimato il
suo potere. Erdogan attribuì a Fetullah Gulen la responsabilità di aver
organizzato l’insurrezione dalla sua dimora negli Stati Uniti, nella quale si
era autoesiliato dopo alcuni attriti con Erdogan. L’imam turco Fetullah Gulen,
che ha negato fermamente ogni addebito, è l’ideologo e il leader del movimento
politico di ispirazione islamista ‘Hizmet’. Nei mesi precedenti il
tentato golpe era cresciuta l’opposizione interna: Erdogan per mantenere il
controllo dello Stato era ricorso all’adozione di misure che, motivate da
esigenze di sicurezza, avevano inciso negativamente in maniera consistente
sulla vita democratica. È legittimo chiedersi se questi moti
insurrezionali furono un reale tentato ‘golpe’ o il pretesto per una svolta
autoritaria. La Turchia resta destinataria di un duplice attacco,
sia da parte del PKK, sia da parte del radicalismo jihadista nonostante le sue
spregiudicate relazioni con l’ISIS. Da un punto di vista internazionale
il Paese è in una situazione di isolamento. Non ha alleati nel mondo arabo,
essendo espressione di un islamismo dai tratti ambigui e palesemente animato
solo da una volontà egemonica, quella di prevalere sugli altri Stati musulmani.
Il regime turco sta cercando di uscire da questa condizione di isolamento
attraverso alcuni tentativi di normalizzazione dei rapporti bilaterali con
alcuni Stati; sembra anche avviato un timido e prudente processo di
pacificazione con Israele. Sono incerti e fluttuanti i contatti con
l’Unione Europea, motivati solo dalla convenienza reciproca, come è provato
dall’accordo sui migranti. L’ipotesi di una possibile adesione al consesso
europeo sembra definitivamente tramontata, in quanto la nazione turca non
soddisfa gli standard richiesti per l’ammissione. Il PKK, che da più di
tre decenni combatte con ogni mezzo per l’autonomia curda, anche in assenza di
specifiche rivendicazioni viene individuato come il primo responsabile di
qualsiasi fatto criminoso eversivo. La Turchia al suo interno è
profondamente divisa: c’è una borghesia urbana – costituita dalle classi
benestanti e dagli studenti impegnati politicamente – che, seppur non omogenea,
è unita nel contrapporsi ai conservatori islamici che sostengono il presidente
Erdogan, sempre più autoritario e repressivo nei confronti della libertà di
opinione. Le sorti future del Paese dipendono sempre più da quale delle
due anime a lungo termine prevarrà sull’altra. Roberto
Rapaccini