Il
terrorismo di matrice islamica costituisce sicuramente un modo per attuare il
Jihad (per analogia con la lingua araba nella traduzione italiana si preferisce
dare alla parola il genere maschile). La parola Jihad ormai è di uso comune. Il
termine viene spesso frettolosamente tradotto 'guerra santa' intendendo con
esso il ricorso collettivo alla violenza per la sottomissione degli infedeli.
In realtà, jihad nell’arabo (standard) significa genericamente 'massimo sforzo'
ed è seguito spesso dall’espressione fi sabil Allah, cioè ‘lungo il sentiero di
Dio’; pertanto, con la locuzione dovrebbe rettamente intendersi la lotta
interiore e individuale che il fedele sostiene in ogni momento della vita per
predisporsi alla comprensione dei misteri divini e per resistere alle pulsioni
estranee o contrarie alla morale religiosa. Peraltro 'guerra santa' in arabo
non si dice jihad ma 'al Harb al Qdsiyah'. Attribuendo al termine jihad
il significato di una mobilitazione collettiva per la difesa dell’Islam, la
fine del Califfato nel 1924 ha posto il problema di quale autorità, in
quanto guida della comunità musulmana, la potesse dichiarare. In assenza
di un Califfo, solo i leader politici musulmani potevano essere depositari di questo
potere; restava però problematica l’individuazione concreta di quale leader
musulmano potesse essere considerato un primus inter pares. Scavalcando
l’autorità politica degli Stati musulmani o quella dei capi religiosi, Al Qaeda
prima e ora l'Isis sembrano essersi attribuiti il potere di proclamare il
jihad contro i governi giudicati anti-islamici, filo-occidentali o
semplicemente corrotti e miscredenti; le loro iniziative terroristiche infatti
non hanno generalmente finalità localistiche (cioè strategicamente limitate
all’impatto nel contesto regionale nel quale vengono compiute), ma si
proclamano strumento di un progetto geopolitico più ampio. La maggior parte
delle aggregazioni terroristiche di matrice islamica invece persegue fini
limitati al territorio in cui si realizzano. Roberto Rapaccini