Domenica
27 novembre sulle Alture del Golan, al confine con la Siria, c'è stato il primo
scontro fra esercito israeliano e combattenti di Daesh; in particolare alcuni
terroristi sono stati uccisi dopo aver attaccato una pattuglia di militari.
Gerusalemme ha risposto bombardando alcune postazioni dello Stato Islamico,
uccidendo i miliziani fondamentalisti. Il raid aereo ha avuto come obiettivo un
edificio originariamente appartenente alle Nazioni Unite, ma successivamente
passato sotto il controllo di forze jihadiste. L'aggressione ai
soldati israeliani probabilmente è stata decisa in autonomia da appartenenti
del gruppo 'Shuhada al Yarmouk', che ha giurato fedeltà all'Isis e che opera in
una stretta fascia di territorio al confine tra Siria e Israele. Come è noto,
Israele si è impossessato nel 1967, al termine della Guerra dei Sei Giorni,
delle Alture del Golan, che allora erano in territorio siriano. Nonostante la
reciproca ostilità fra Israele e Stato Islamico, il recente scontro del 27
novembre deve essere considerato un caso isolato e non un cambiamento di
strategia del sedicente neocaliffato, in quanto sia Israele e sia lo Stato
Islamico non hanno mai ritenuto opportuno aprire un fronte l'uno
contro l'altro. Israele inoltre ha sempre accuratamente evitato il proprio
coinvolgimento nella guerra siriana: questa opzione presumibilmente ha una
duplice motivazione. Innanzitutto il governo di Gerusalemme ha sempre
apprezzato i buoni rapporti con l'asse sunnita al fine di controllare la
minaccia siriana, conservando tuttavia nello stesso tempo una posizione neutra
ed equidistante nella contesa fra sciiti e sunniti. Inoltre Israele, per tenere
elevata la sua deterrenza militare nei confronti dei nemici storici, evita
iniziative che possano incidere negativamente sulla sua reputazione di rivale
temibile, lucido e determinato nel contrastare qualsiasi aggressione alla sua
esistenza. Per supportare questa dissuasività strumentale alla propria
autodifesa, Israele è sempre rimasto fuori dai conflitti di difficile gestione
ed esito incerto (ovvero che esulano dal suo controllo nonostante il proprio
potenziale militare), soprattutto se non interessano direttamente l'integrità
territoriale. In relazione a quanto premesso ricorrono le condizioni che
inducono lo Stato ebraico a rimanere estraneo alle vicende belliche siriane,
che tuttavia creano una pericolosa instabilità nella regione mediorientale. Per
quanto riguarda il rapporto con i Palestinesi si è recentemente tenuto il
Congresso Nazionale di Fatha, il partito che rappresenta la maggioranza del
movimento palestinese (l'ultima assise risale al 2014). Al riguardo non è
emersa una leadership diversa ed è stato confermato al vertice
il plenipotenziario ottantenne Abu Mazen, che cumula su di sé anche le
attribuzioni di dirigente dell'Olp e di capo dell'Autorità palestinese. La sua
linea è sempre stata finalizzata con scarso successo ad ottenere il
riconoscimento dello Stato palestinese da parte delle Nazioni Unite (a seguito
di una risoluzione del 2012 la Palestina è "Stato osservatore non membro
dell’Onu"); tuttavia Abu Mazen si è in concreto dimostrato incapace di
contrastare la politica di 'occupazione' della 'destra' governativa israeliana.
In altri termini, le aspirazioni dei palestinesi con molta probabilità continueranno
ancora a subire l'immobilismo e la politica sterile e improduttiva dei vertici
palestinesi. Roberto Rapaccini